Miliardi di dollari della comunità internazionale, destinati a rimettere in piedi il Paese mediorientale, sono stati sottratti, dirottati, rubati. E reinvestiti in giro per il mondo.
Dove sono finiti i soldi della comunità internazionale destinati alla popolazione dell’Afghanistan? Secondo i revisori dei conti del governo statunitense, miliardi di dollari di fondi stanziati per la ricostruzione sarebbero stati distratti quando non direttamente rubati nel corso degli ultimi due decenni, aggravando le condizioni di un Paese che sta subendo un rapidissimo declino economico, con un’inflazione guidata dallo shock globale delle materie prime, mentre la fame e il rischio di malnutrizione colpiscono oltre metà della popolazione, insieme a un drastico aumento della povertà urbana e rurale, e al collasso del sistema sanitario pubblico nazionale. Tutto ciò, senza considerare l’esclusione quasi totale di metà della popolazione – ovvero donne e ragazze – dalla vita pubblica.
Dopo la fuga da Kabul del contingente americano, nel 2021, l’Afghanistan è precipitato nell’incubo che conosciamo con il nome «Stato fallito». Ma cosa significa esattamente? E chi ha contribuito a questa disfatta? Una delle più grandi truffe perpetrate ai danni del popolo afghano (e contemporaneamente a quello americano e, più in generale, all’Occidente) è stata quella guerra infinita protrattasi dal 2001 al 2021 e finalizzata tanto a stanare il terrorista Osama bin Laden, mente degli attentati dell’11 settembre, quanto a scacciare i talebani che lo proteggevano dal governo. Per quella guerra di vendetta – il cui risultato è stato il ritorno al potere degli estremisti islamici – gli Stati Uniti da soli hanno speso circa 2.300 miliardi di dollari. Un migliaio dei quali sono stati destinati alle operazioni di combattimento, 530 sono serviti a pagare gli interessi sui debiti contratti per finanziare l’intervento militare, 443 invece sono rientrati alla voce «aumento del bilancio» della Difesa, e quasi 300 impiegati per la cura dei veterani.
A questa montagna di soldi vanno sommati quelli che le Nazioni Unite hanno consegnato in contanti, letteralmente, all’Afghanistan dopo che i talebani ne hanno preso il controllo: oltre 2,9 miliardi di dollari. L’Onu ha depositato il denaro nelle banche private locali, affinché quei fondi fossero ripartiti alle varie organizzazioni umanitarie dell’agenzia e ai gruppi umanitari senza scopo di lucro che operano sul campo. Parte di questi versamenti è stata fatta anche presso la Banca centrale dell’Afghanistan e così è poi finita direttamente nelle tasche dei nuovi padroni di Kabul.
Peccato che l’Emirato islamico – nome ufficiale con cui si è costituito il ritorno dei mullah – non sia riconosciuto da alcuna nazione straniera. Ecco perché gli americani hanno proceduto alla confisca unilaterale (con l’ordine esecutivo presidenziale del febbraio 2022) fino a sette miliardi di dollari di riserve afghane depositate nella Federal Reserve di New York, mentre altri 2,5 miliardi di dollari sono stati congelati presso istituti di credito europei.
Un pasticcio doppio che ha avuto come unico risultato il fatto che la Banca centrale afghana è rimasta tagliata fuori dal sistema creditizio internazionale, causando una crisi di liquidità e una carenza di banconote fatali al Paese. Per correre ai ripari e non affliggere ancor più la popolazione, Washington con quei soldi ha poi creato in Svizzera un Fondo afghano da 3,5 miliardi di dollari. Intanto, però, quel denaro è sparito. Dove? L’ispettorato speciale per la ricostruzione dell’Afghanistan (Sigar), attraverso il suo direttore John Sopko, in un rapporto interno ha chiarito che i miliardi di dollari spesi dagli Usa e dalle Nazioni Unite per la ricostruzione non sono mai sono arrivati a chi ne ha davvero bisogno. Semmai, tra coloro che si sono «riempiti le tasche» a danno degli afghani con i soldi occidentali, ci sono non pochi ex funzionari del governo locale, quello che in teoria doveva essere «leale amico» degli Stati Uniti. Tra i più noti, ci sono l’ex presidente del Parlamento Mir Rahman Rahmani e suo figlio Ajmal Rahmani, conosciuti per il loro ampio ruolo nella corruzione transnazionale e le loro abilità finanziarie: insieme, padre e figlio, hanno creato ramificazioni in numerosi Paesi attraverso almeno 44 società di comodo o entità associate attraverso cui quel denaro è stato drenato e sottratto nel tempo dalle casse statali.
Oggi, i Rahmani sono pertanto accusati di frode riguardante i prezzi gonfiati sui contratti di carburante che le loro società fornivano alle forze di sicurezza afghane. Dopo essersi fatti strada con la corruzione in Parlamento, i Rahmani hanno progressivamente utilizzato le loro posizioni ufficiali per perpetuare il loro sistema corrotto, gonfiando in modo fraudolento i prezzi di vendita al dettaglio delle merci, manipolando le offerte di acquisizione di società fallite ed eliminando la concorrenza sui contratti finanziati dagli Stati Uniti per ottenere denaro da reinvestire al di fuori dell’Asia. Secondo il Dipartimento del Tesoro Usa, grazie a una stuolo di società fittizie – 21 tedesche, otto basate a Cipro, sei negli Emirati Arabi Uniti, due afghane, due austriache, una olandese e una bulgara – hanno preso possesso di interi quartieri europei, come a Ehningen, in Germania, dove si trova il sito ex Ibm divenuto laboratorio quantistico. Inoltre, documenti catastali tedeschi mostrano che sei società di proprietà di Ajmal Rahmani detengono altri immobili in Germania per un valore di almeno 197 milioni di euro.
Rahmani e suo figlio Ajmal, costretti a fuggire dall’Afghanistan dopo la caduta di Kabul, hanno ottenuto un passaporto cipriota e l’ex presidente del Parlamento ha reinvestito decine di milioni di dollari, dal bottino sottratto ai connazionali, anche in proprietà immobiliari a Dubai: appartamenti e ville, oltre a due grattacieli, che generano ogni anno entrate nette per milioni di dollari, e persino due grandi complessi residenziali, l’Ocean Residencia e il Fern Heights, con un totale di 228 unità in locazione. Solo queste fruttano oltre due milioni di dollari di reddito annuo. Anche altri appaltatori afghani hanno seguito l’esempio dei Rahmani e hanno acquisito proprietà a Dubai, grazie alla criminale quanto certosina opera di distrazione dei fondi destinati alla popolazione durante un decennio. Tra questi personaggi figura Rashid Popal, proprietario di Amania Mining Company, un’impresa privata attiva nell’industria estrattiva, con sedi a Karachi (Pakistan) e appunto Dubai. Una delle sue società, secondo un’indagine del Congresso Usa del 2010, avrebbe utilizzato fondi destinati alla ricostruzione del Paese per pagare tangenti ai talebani e alle forze di sicurezza governative che controllavano i posti di blocco sulle rotte dei rifornimenti. Sebbene mai condannato, il suo caso è esemplare del modus operandi nel mondo imprenditoriale attorno al governo filo-occidentale, che ha preceduto il ritorno dei talebani: corruzione, sottrazione di fondi e loro reimpiego. Con un unico avvertimento: va bene investire ovunque, tranne che in Afghanistan.