Il grande successo dell’attacco di Hamas si è dovuto alla conoscenza del nemico: i jihadisti ne hanno colpito i gangli vitali annientando da subito sistemi di difesa e centri decisionali. Un piano perfetto, troppo perfetto per non avere avuto informazioni «da dentro».
Chi ha tradito Israele? La domanda, oggi, è coperta dal chiasso della guerra. I comandi militari e politici di Tel Aviv, come quelli dell’intelligence, hanno altre urgenze. La questione, però, cova inquieta sotto la cenere: brucia come fuoco sotto il cumulo dei 1.460 israeliani orribilmente trucidati il 7 ottobre dai terroristi di Hamas; illumina le fotografie appese degli oltre 200 ostaggi che quel maledetto sabato i miliziani palestinesi hanno trascinato via con sé; è sale sparso sulle cicatrici ancora aperte nei corpi dei 4.700 feriti che si sono lasciati alle spalle.
Tra le 5 e le 6 di mattina del 7 ottobre, quando i jihadisti hanno abbattuto le recinzioni al confine della Striscia di Gaza, nessuno ha reagito. Nessuno ha difeso il suolo di Israele. Centinaia di terroristi sono penetrati senza preavviso attraverso le reti tagliate, poi hanno sfondato la sottile linea di protezione di caserme e casematte. Quindi hanno iniziato la mattanza degli spettatori del rave party di Re’im, nel deserto, e hanno fatto irruzione nei kibbutz e nelle case indifese. Per ore è sembrato che i miliziani di Hamas si muovessero come comparse di un film dell’orrore: ogni loro passo pareva basato su un copione prestabilito, strategicamente perfetto.
Eppure, qualche ora prima dell’attacco, i servizi segreti israeliani (vedere il riquadro a pag. 44) avevano segnalato alle strutture militari dislocate attorno alla Striscia che nella notte c’era stata un’improvvisa, allarmante impennata di attività online nelle reti pro-Hamas. Tra le 4 e le 5 di mattina, però, in quelle caserme non c’erano sentinelle, soldati o ufficiali dello Tzahal, l’esercito israeliano, in grado di leggere alcun messaggio. Non potevano, perché qualche ora prima, dai tetti di Gaza, i terroristi avevano cominciato a lanciare i loro droni. Con un obiettivo strategico: accecare e rendere sordo il nemico. I droni di Hamas avevano distrutto torri e stazioni israeliane poste lungo il confine, tagliando le comunicazioni telefoniche e informatiche delle caserme. Avevano annientato anche i sensori d’allarme e le telecamere di videosorveglianza, e messo fuori uso le mitragliatrici telecomandate, piazzate da Israele su decine di torrette attorno alla Striscia, eliminando così l’arma più efficace per contrastare un attacco di terra.
È stato subito dopo quella devastazione, alle prime luci dell’alba, che le ruspe di Hamas e pochi panetti d’esplosivo hanno abbattuto le recinzioni della Striscia, in più punti. Ed è stato allora che l’eccesso di fiducia riposto dai comandi militari di Tel Aviv nelle difese telematiche, oltre che ingenuo, s’è mostrato disastroso. Perché a quel punto è bastato che l’avanguardia di Hamas – fatta di poche centinaia di terroristi – si mettesse a correre in motocicletta nella polvere, verso caserme e casematte, per ucciderne senza sforzo le sentinelle e gli occupanti, ancora immersi nel sonno. Mentre altre decine di attaccanti, armati fino ai denti, volavano con gli ultraleggeri sul deserto a est di Gaza, puntando sulla grande folla radunata per il concerto. Uno degli obiettivi prioritari della prima ondata dell’attacco palestinese, cui alla fine si stima abbiano preso parte oltre 2 mila terroristi, è stato il centro nevralgico delle difese informatiche israeliane lungo il confine: la caserma che conteneva i grandi server dai quali dipendeva quanto ancora non era stato già neutralizzato da Hamas. Distruggere la rete dei computer è stato come spegnere del tutto il cervello dei difensori.
I comandanti israeliani, poi, erano tutti riuniti in un solo edificio: quella caserma è stato tra i primi obiettivi, perché ha permesso di catturare in un sol colpo il gruppo di ufficiali da cui dipendevano le difese attorno alla Striscia di Gaza. Questa semplice, doppia operazione ha tagliato la testa a ogni possibilità di reazione. È per questo se da Tel Aviv, per troppe ore dopo l’attacco, non è venuta alcuna risposta. Ed è stato così che Hamas ha potuto uccidere impunemente almeno 1.200 israeliani rimasti indifesi nei kibbutz, più altri 260 tra gli spettatori del concerto, producendo quello che il presidente Isaac Herzog ha definito «il peggiore eccidio di massa di ebrei dall’Olocausto». Aharon Haliva, il generale dei paracadutisti che dal 2021 guida Aman, l’intelligence militare israeliana, ha atteso dieci lunghissimi giorni per ammettere il fallimento: «Non siamo stati all’altezza», ha detto, «non abbiamo previsto l’attacco». Poi ha aggiunto poche parole, passate inosservate ai più: «In futuro indagheremo a fondo. Ora tutti i nostri occhi sono puntati su una unica missione: vincere la guerra».
In realtà, dal 7 ottobre, assieme ai più alti comandi militari e dell’intelligence, il generale Haliva non fa altro che rimuginare su un video, registrato da una telecamera rimasta accesa all’esterno di una delle casematte appena attaccate da Hamas. I fotogrammi ingranditi di quel filmato, confermato da altri video rinvenuti nelle videocamere recuperate sugli elmetti di alcuni miliziani uccisi, hanno permesso agli israeliani di osservare da vicino uno dei capi del commando palestinese mentre tiene in mano una cartina plastificata delle fortificazioni da poco attaccate e di quelle vicine. Nella mappa c’è tutto: strutture, dimensioni e organici delle caserme, sistemi d’arma a disposizione, distanze fisiche da postazione a postazione, perfino la stima dei tempi di reazione dei relativi contingenti. È evidente che quella massa d’informazioni, così numerose e accurate, e tanto delicate e strategiche, non possano essere scivolate da Israele ad Hamas per errore, o per semplice disattenzione. Si crede, quindi, che qualcuno abbia tradito. L’ipotesi è molto concreta e in Israele, se possibile, fa ancora più male degli interrogativi sulla mancata prevenzione: com’è possibile che l’intelligence abbia ignorato che Hamas stava preparando un attacco di quella portata?
È vero: i terroristi hanno fatto di tutto per colpire a freddo, e di sorpresa. Dal maggio 2021 Hamas non aveva più preso parte agli attacchi scatenati da Gaza contro Israele, convincendo il premier Benjamin Netanyahu e i suoi comandi militari che non fosse troppo rischioso spostare il 70 per cento dell’esercito da sud a est, verso la Cisgiordania, a difesa degli interessi dei coloni. Ed è vero anche che i comandi israeliani hanno fatto troppo affidamento sulle barriere fisiche, sull’informatica, sui sensori automatici, sulle armi senza uomo, dimenticando che anche gli avversari avrebbero potuto fare altrettanto: nelle mani di Hamas, del resto, i droni sono stati uno strumento fin troppo efficace. E i terroristi, va detto, non hanno ancora impiegato i temibili droni-kamikaze (prodotti in Iran) in grado di far volare per chilometri una carica esplosiva, e capaci di fare danni simili a quelli inferti dai droni marini ucraini, che hanno affondato mezza flotta russa nel Mar Nero. Il sospetto di una quinta colonna, però, resta l’ombra più nera. Per questo la domanda più angosciosa, quella che oggi a Tel Aviv tutti si pongono, è: chi ha tradito Israele?