La Russia riceve da Pechino materiali di ogni tipo. Così Vladimir Putin può proseguire il conflitto.
La guerra in Ucraina è Made in China? Si direbbe di sì, dato che Pechino fornisce a Mosca ogni mese prodotti dal duplice utilizzo – ovvero con applicazioni sia commerciali che militari – per un valore medio di oltre 300 milioni di dollari, che consentono al Cremlino di proseguire l’immane sforzo bellico in terra straniera compensando il gap tecnologico con l’Occidente. Come sia possibile a entrambi aggirare le sanzioni e alimentare il commercio di armi, è presto detto: lo schema prevede che il governo russo acquisti singoli componenti di normali prodotti di consumo non coperti dai controlli sulle esportazioni occidentali, che poi assembla o smonta in fabbriche che hanno predisposto linee di produzione ad hoc. L’elenco include ciò che gli Stati Uniti hanno designato come articoli «ad alta priorità», necessari cioè per fabbricare armi, mascherati però da semplici «pezzi di ricambio».
Aziende cinesi stanno fornendo alla Russia soprattutto: nitrocellulosa per la produzione di propellenti per le armi; motori per droni e turboreattori per missili da crociera; componenti ottici per carri armati e veicoli blindati (è il caso delle società Wuhan Global Sensor Technology Co, Wuhan Tongsheng Technology Co Ltd, iRay Technology, North China Research Institute of Electro-Optics e Hikvision). Inoltre, secondo i funzionari statunitensi, la Cina sta aiutando la Russia anche a migliorare le sue capacità satellitari e spaziali da utilizzare nel teatro ucraino. Il che significa in pratica estendere la minaccia di Mosca all’intera Europa. Incrociando vari dati doganali (forniti dalla stessa Cina), è facile scoprire che per lo più si tratta soprattutto di componenti microelettronici, semiconduttori, apparecchiature per le telecomunicazioni e macchine utensili (l’acquisto di queste ultime da solo è aumentato di quasi il 40 per cento), che costituiscono sin dal 2022 le principali voci di esportazioni cinesi verso la Russia. Esportazioni cresciute a dismisura, al punto che la «sinificazione dell’economia» della Federazione è ormai una realtà consolidata. Basti pensare a prodotti di grande consumo come gli smartphone e le auto: sul mercato russo valgono ormai rispettivamente il 55 e il 70 per cento del totale. I marchi del Dragone rappresentano ormai la metà dell’offerta; una quota destinata a crescere ancora, visto che l’unica altra vera concorrente è la stessa industria russa, carente nei settori.
In questo modo, nel 2023 si è raggiunto un picco di oltre 240 miliardi di dollari di interscambio commerciale tra Cina e Russia. Sebbene le transazioni mensili siano poi diminuite lungo il 2024, Pechino rimane il principale fornitore di Mosca. E lo è anche grazie alle triangolazioni attraverso reti di intermediari in Paesi come Iran, Kazakistan e Turchia, che da un lato si dicono pronti a cooperare con le autorità occidentali, dall’altro proseguono il loro commercio clandestino. Come del resto accade già con il petrolio. Infatti, come sostiene la Commissione europea, «la Russia sta utilizzando una flotta-ombra di vecchie petroliere per trasportare il suo greggio nel tentativo di eludere le sanzioni dell’Ue e il tetto massimo del prezzo del petrolio del G7». Navi ufficialmente non russe ma che lavorano per Mosca. Assai difficili da individuare, impossibili da controllare: appartengono a società di comodo con sede in Paesi terzi, spesso acquistate da ditte europee pronte a dismettere mezzi considerati vecchi, e dunque regolarmente registrate nel passaggio di mano.
In tutto ciò, l’aspetto più imbarazzante riguarda proprio il fatto che molte di questi mezzi, navigli e altro, sono appunto occidentali. Secondo i dati ufficiali del governo britannico, per esempio, dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina «più di cento aziende del Regno Unito hanno ammesso di aver violato le sanzioni». E se questo vale per il Paese più agguerrito nel contrasto alle mire espansionistiche russe, figuriamoci il resto. In base a una recente indagine commissionata dalla Nato, si è scoperto anche che lo Shahed-136, un drone di fabbricazione iraniana ampiamente utilizzato dalle forze russe in Ucraina, contiene almeno 35 diverse componenti occidentali. Mentre il Royal United Services Institute ha rilevato che quasi un quarto dei componenti delle armi russe recuperate dalle forze di Kiev – missili da crociera compresi – provenivano dalle fabbriche della Texas Instruments e di Analog Devices, entrambi marchi statunitensi. Tornando alla Cina, nel 2023 è stata responsabile di circa il 90 per cento delle importazioni russe di beni che rientrano nella «lista nera» del G7. Solo due anni prima, nel 2021, la dipendenza della Russia dalla Cina valeva il 32 per cento ed era balzata oltre il 75 per cento ad appena nove mesi dallo scoppio del conflitto. Il che dimostra a sufficienza come la capacità di Mosca di sostenere l’invasione dell’Ucraina dipenda interamente dalla sua abilità di acquisire da Pechino i fattori di produzione necessari per alimentare la propria macchina bellica.
Dall’inizio del 2022, il Cremlino ha perso oltre 10 mila unità di equipaggiamento chiave, tra carri armati, veicoli blindati, sistemi di artiglieria e droni. E per quanto la Russia sia comunque riuscita a incrementare la produzione di artiglieria negli ultimi due semestri (va anche detto che la Corea del Nord, sempre via Pechino, fa la sua parte), la capacità di realizzare internamente prodotti specializzati come la microelettronica e dispositivi ottici rimarrà insufficiente a lungo, forse per decenni. Di conseguenza, le esportazioni cinesi manterranno un ruolo fondamentale. In tutto ciò, fino a poco tempo fa la Casa Bianca fingeva di non vedere l’evidenza, sostenendo che Pechino non forniva aiuti letali a Mosca «su base sistematica». Durante l’incontro con il vicepremier cinese He Lifeng nel novembre 2023, il segretario al Tesoro statunitense Janet Yellen aveva dichiarato che fossero le società private responsabili dell’elusione delle sanzioni. Come se in Cina esistesse davvero un sistema capitalistico privato e indipendente dal controllo del governo. Infatti, poco dopo anche Washington ha cambiato versione: prima asserendo che «Pechino non ha fatto nulla o quasi per impedire tali transazioni»; poi suggerendo che oggi è essa a incoraggiare queste transazioni «compiendo uno sforzo sistematico per sostenere lo sforzo bellico della Russia».
Ora, il problema è doppio: grazie all’aiuto dello Stato cinese il Cremlino potrebbe continuare ad alimentare la guerra contro Kiev per almeno un altro quinquennio; al tempo stesso, al Dragone non conviene mettere in crisi i legami con Europa e Usa, pur dovendo garantirsi la Russia come partner strategico stabile. Finora la strategia di Xi Jinping, almeno in apparenza, ha puntato a posizionare diplomaticamente il suo Paese come neutrale, e «ago della bilancia» all’approssimarsi di tavoli per la pace. Ed è forse per tale ragione che le esportazioni da Pechino a Mosca sono ultimamente in frenata, con l’Occidente che registra sempre più ridotte capacità della Russia di acquisire componenti con duplice uso dalla Cina, ma anche da diversi altri Paesi. Secondo il Wall Street Journal, le importazioni complessive russe di articoli ad alta priorità sono calate del 45 per cento dall’inizio del conflitto. L’anno scorso solo Cina, Turchia, Malesia e Armenia hanno fornito più dell’1 per cento del totale delle importazioni russe ad alta priorità. Lo stesso presidente Joe Biden ha avvertito Xi Jinping del fatto che ogni azienda cinese coinvolta in transazioni con l’industria della difesa russa da adesso sarà soggetta a sanzioni più dure. Ed è ciò che il presidente-segretario del Partito comunista teme forse di più: una retorica anti-cinese che possa portare a uno scontro diretto con Washington proprio nel momento in cui si avvicinano le elezioni negli Stati Uniti. Quando cioè per Pechino cresce il rischio d’isolamento, considerata la «variabile Trump» che, per sua stessa ammissione, non esiterebbe «a bombardare la Russia» e anche «la Cina, nel caso di un’invasione di Taiwan».