Attorno agli interessi di Cina e Stati Uniti si sono formati blocchi militari e commerciali, con India, Giappone, Australia, Paesi del Sud-est asiatico. In quest’area che produce il 37 per cento del Pil mondiale e comprende 4,3 miliardi di persone si deciderà dunque molta parte del futuro del pianeta.
Il primo ministro giapponese Fumio Kishida ha scelto l’India, dove si è recato in visita diplomatica, per annunciare il 20 marzo scorso il suo piano per «l’Indo-Pacifico libero e aperto», strategia ufficiale del Sol Levante in tandem con gli Usa per contenere l’espansionismo cinese nella regione. La scelta di Nuova Delhi come palcoscenico non è casuale: sia perché il gigante asiatico ha un ruolo fondamentale nel contenimento del Dragone sia perché fu proprio parlando al Parlamento indiano che, 15 anni fa, l’allora premier nipponico Shinzo Abe sdoganò l’idea di un comune destino per i due oceani.
In quanto entità geopolitica, i confini dell’Indo-Pacifico nell’accezione più diffusa non coincidono perfettamente con quelli geografici: lo United States Indo-Pacific Command delle forze armate americane, per esempio, include nella sua area di competenza i Paesi racchiusi in un rettangolo trapezoidale che ha come vertici Maldive, Nuova Zelanda, Giappone e Hawaii. Un’area che coincide in buona parte con la regione economica dell’Asia-Pacifico, che rappresenta il 37 per cento del Pil del mondo e conta oltre metà dell’umanità, circa 4,3 miliardi di persone.
Nonostante il massiccio supporto statunitense all’Ucraina nella guerra contro la Russia (la quale, tra l’altro ha appena fatto timidi test missilistici nel Mar del Giappone), Washington non ha affatto dimenticato che è nella zona asiatica che si gioca la partita decisiva con la Cina per la supremazia globale in questo secolo. Pechino considera il dominio sugli oceani asiatici come condizione imprescindibile per consolidare il proprio status di superpotenza, a partire dalle acque di casa del Mar cinese meridionale dove la presenza di Taiwan indipendente e filoamericana è considerata dall’esecutivo di Xi come un ostacolo strategico non ignorabile, oltreché un errore storico.
L’America non intende tuttavia rinunciare a un alleato in posizione così strategica, al di là delle possibili simpatie verso i 9 taiwanesi su 10 che non desiderano affatto finire sotto l’ombrello di Pechino. Non solo Washington ha stanziato due miliardi di dollari l’anno di aiuti militari per Taipei da qui al 2027, ma il ministro della Difesa taiwanese Chiu Kuo-cheng ha ammesso nelle scorse settimane che sono in corso colloqui per piazzare depositi di armi e munizioni americane direttamente sull’isola. Del resto, lo stesso Joe Biden lo scorso settembre si era spinto ad affermare esplicitamente che l’America avrebbe difeso la piccola nazione in caso di attacco cinese.
Pechino però sta investendo molto per dotarsi di strumenti militari adeguati a sostanziare le proprie mire: la Marina dell’Esercito popolare di liberazione cinese ha già superato nel 2020 la controparte statunitense per numero di navi e entro il 2025 ne avrà in esercizio almeno 400, dalle 37 di appena vent’anni fa. Pur tenendo conto delle differenze di stazza e tecnologia a loro favore, gli ammiragli americani sono preoccupati e progettano di colmare il divario affiancando alle loro navi tradizionali dei vascelli senza equipaggio: l’ammiraglio Mike Gilday, capo di Stato maggiore della Marina americana, prevede che per il 2045 costituiranno il 40 per cento della flotta a stelle e strisce.
Nel frattempo, Washington punta sul rafforzamento dello schieramento avanzato nel quadrante, dove oggi sono già presenti circa 375 mila militari americani. Lo scorso febbraio il segretario di stato Antony Blinken, in visita nelle Filippine, ha annunciato l’apertura di quattro nuove basi nell’arcipelago, con cui i rapporti sono tornati cordiali dopo l’uscita di scena, lo scorso anno, del presidente filocinese Rodrigo Duterte. Ma Washington conta sempre di più anche sul coinvolgimento diretto degli alleati regionali, inquadrati in diversi accordi di cooperazione militare.
India, Giappone, Australia e Stati Uniti stanno portando avanti il Dialogo quadrilaterale di sicurezza, identificato come Quad: un’alleanza strategica informale che prevede iniziative congiunte sia in campo militare, come esercitazioni interforze, sia in altri ambiti, quali la distribuzione dei vaccini contro il Covid-19, occasione in cui sono stati coinvolti anche Corea del Sud, Nuova Zelanda e Vietnam, altri rivali del Dragone. L’Australia, inoltre, nel 2021 ha siglato, assieme agli americani e al Regno Unito, l’accordo Aukus, i cui termini sono stati resi pubblici però solo qualche settimana fa, provocando grande irritazione nel regime di Pechino.
Il patto prevede infatti che gli Stati Uniti vendano alcuni sottomarini a propulsione nucleare di ultima generazione a Canberra nei prossimi dieci anni, ma soprattutto che le forniscano la tecnologia per poterli fabbricare in autonomia. Si tratta della prima volta negli ultimi 75 anni, e la seconda nella storia, in cui il Pentagono ha deciso di condividere i propri segreti industriali militari in tema di sommergibili. A guastare il sonno dei comandi cinesi, ufficialmente, è la proliferazione della tecnologia nucleare, nonostante la stessa flotta cinese ne faccia uso. Dietro le quinte, la preoccupazione è per la volontà del blocco occidentale di proseguire nel lungo periodo il contenimento navale anticinese, come traspare dalle tempistiche.
«L’accordo dell’Aukus colpisce per la sua profondità temporale: rivela che Washington e gli alleati hanno già pianificato il contenimento marittimo di Pechino almeno fino alla metà del secolo» dice Filippo Fasulo, co-Head dell’Osservatorio Geoeconomia dell’Ispi. «L’Indo-Pacifico si conferma quindi una priorità esistenziale per gli Stati Uniti, che hanno ripensato la propria strategia con un maggior coinvolgimento dei propri alleati. Sia in ambito militare sia in ambito economico: pensiamo al recente accordo con Paesi Bassi e Giappone per limitare l’export verso la Cina dei semiconduttori, componenti fondamentali per la competizione tecnologica». La Cina dal canto suo fatica a trovare intese politiche con i propri vicini, con molti dei quali ha aperti conteziosi legati a rivendicazioni territoriali, ma può invece far leva sul commercio, ambito in cui predomina nettamente: nel 2020 il volume di interscambi tra Pechino e gli Stati dell’Indo-pacifico aveva raggiunto i 685 miliardi di dollari contro i 320 degli americani.
Il Dragone è parte di diversi accordi e intese regionali di natura economica, a partire dal Regional comprehensive economic partnership (Rcep), in vigore nel 2022 e che coinvolge altri 17 Paesi, costituendo il più grande blocco commerciale della storia. Washington ha provato a rispondere con l’iniziativa, l’Indo-Pacific economic framework for prosperity (Ipef), che tuttavia è poco efficace non prevedendo una riduzione delle tasse d’importazione. Proprio il controllo dei flussi commerciali via mare è uno degli obiettivi strategici sia per la Cina sia per il blocco occidentale. In particolare attraverso lo stretto di Malacca, corridoio navale tra la penisola malese e l’isola indonesiana di Sumatra che congiunge l’Oceano Indiano col Mar cinese meridionale. Di qui passano in media 90 mila navi l’anno, che trasportano il 60 per cento del commercio marittimo globale, incluso l’80 per cento delle importazioni cinesi di petrolio.
Anche l’Italia, il cui commercio con la sola Cina vale quasi 80 miliardi di euro annui, nonostante la distanza geografica è attenta e attiva nell’Indo-Pacifico, guardando alle sempre maggiori interconnessioni tra la regione e i mari a noi più vicini. Il ministro della Difesa Guido Crosetto il 16 marzo è volato a Tokyo per siglare un accordo con Giappone e Regno Unito, e ha colto l’occasione per dichiarare che «il futuro del Mediterraneo dipende da ciò che succede nell’Indo-Pacifico e viceversa».