Da oltre tre mesi alle proteste, in particolare dei giovani, il regime degli ayatollah risponde con una violenza crescente, culminata con pallottole e impiccagioni. Ma quali sono le reali possibilità di cambiamento nel Paese islamico?
Hanno gridato insieme gli slogan della rivolta che sta attraversando l’Iran da più di tre mesi. Hanno danzato intorno ai falò. Insieme, uomini e donne in molti casi hanno bruciato i loro hijab e sciolto i capelli. Persone di ogni età, estrazione sociale, appartenenza etnica, gridano temerarie: «Donna, vita, libertà!», «Morte a Khamenei!», «Morte al regime, assassino di bambini!». Sono le più vaste proteste dalla rivoluzione islamica del 1979, che come un’onda hanno travolto tutte le principali città del Paese: da Teheran a Gorgan, da Sanandaj a Isfahan. Le università sono state invase dai giovani, arrabbiati, stanchi, ma talvolta gioiosi perché sentono vicini i risultati dei loro sacrifici. In molti atenei di Teheran le lezioni sono state sospese. I ragazzi più impavidi hanno messo in pratica una nuova forma di opposizione: si avvicinano di nascosto ai mullah – che rappresentano il governo repressivo – danno una pacca al turbante e lo gettano a terra. Uno sberleffo da niente ma che potrebbe costar caro, considerando le inusitate reazioni del regime a quelle che considera «devianze». La furia della contestazione è iniziata così, il 16 settembre, con una bagattella punita selvaggiamente. Ovvero con la 22enne curda Mahsa Amini arrestata e pestata a morte dalla «polizia morale» iraniana perché una ciocca di capelli le spuntava dall’hijab. Da allora le proteste non diminuiscono di forza, né il regime placa la sua violenza, che anzi va in crescendo. Prima le bastonate e i gas lacrimogeni, adesso le pallottole. Dall’inizio della contestazione oltre 500 manifestanti, compresi 69 bambini, sono stati uccisi. Due i giustiziati per impiccagione. E ce ne sono almeno altri 100 che rischiano la stessa sorte, condannati in processi farsa grazie a confessioni estorte dopo essere stati torturati, violentati, privati della dignità.
Molti i ragazzi-simbolo che hanno sfidato gli ayatollah con la sfrontatezza e il coraggio della giovinezza. Come Elnaz Rekabi, la scalatrice iraniana che ha partecipato a una gara dei Campionati asiatici togliendosi il velo e raccogliendo i capelli in una coda (e per questo la sua casa è stata rasa al suolo dalle ruspe del governo). O come la campionessa di scacchi Sara Khadim al-Sharia, che pochi giorni fa si è presentata ai Mondiali in Kazakistan senza velo in segno di solidarietà verso i manifestanti. Il prezzo della libertà è altissimo. Ma fino a quando i giovani pagheranno la rivolta con la vita? E vinceranno dopo tutto questo sangue versato? «Le proteste hanno piantato i semi della rivoluzione in Iran, e i futuri leader del Paese potrebbero essere tra i giovani manifestanti di oggi» dice a Panorama Ali Alfoneh, analista del think tank Arab Gulf States Institute di Washington.
Le manifestazioni sono diventate sempre più un gioco del gatto col topo, dove un regime che sembra non avere strumenti se non la repressione si trova davanti giovani carichi di energia. «Le rivolte mi hanno dato speranza» afferma Eloha, 27 anni, allenatrice in una palestra. Mi auguro che invece di essere costretta a emigrare, io possa rimanere nel mio Paese e avere una vita normale. Non si può più tornare indietro». Anche Iman, 32 anni, dipendente di Snap, l’Uber iraniano, sottolinea: «Le recenti ribellioni non sono solo per i diritti delle donne, ma per il diritto alla libertà di parola, il diritto al dissenso e tutti gli altri diritti più elementari. Le condizioni economiche e sociali qui sono diventate molto difficili e l’aspettativa di vita è diminuita drasticamente. Spero che vedremo giorni migliori».
Al di là della protesta contro il velo, infatti, i problemi del Paese sono soprattutto di tipo economico. Dopo un decennio di sanzioni internazionali, la vita per molti iraniani è molto dura (il 31 per cento di loro vive con meno di 3 dollari al giorno) e si chiedono riforme non più procrastinabili. L’inflazione ha raggiunto livelli insostenibili, i prezzi aumentano a un ritmo annuo del 50 per cento e la spesa per le famiglie della classe operaia è diminuita del 15 per cento nell’ultimo decennio. «Gli iraniani soffrono per le sanzioni e per la cattiva gestione dell’economia» conferma Alfoneh. «Il rial continua la sua caduta nei confronti del dollaro, che colpisce principalmente i dipendenti del settore pubblico della classe media». Il regime è in pericolo e cerca di imporsi con il terrore. L’ayatollah Ali Khamenei ha accusato gli Stati Uniti e Israele di aver pianificato le proteste e anche il presidente Ebrahim Raisi è sulla stessa linea. Dopo aver minacciato la piazza «terrorista» e affermato che è fomentata da «agenti stranieri», ha precisato: «Le braccia della nazione sono aperte a tutti coloro che sono stati ingannati. I giovani sono i nostri figli, non avremo pietà per gli elementi ostili». Forse un tentativo di dialogo, che i manifestanti non intendono cogliere, decisi come sono a non fare passi indietro.
Dal canto suo, la dittatura religiosa affronta le proteste senza una continuità di azione. Ha subito reagito ferocemente alla sommossa generale, poi però sembrava voler mediare con l’annuncio dello stop alla polizia morale. Disposizione su cui è subito piombata una coltre di dubbi e incertezze: forse è stata effettivamente abolita, forse è soltanto un bluff. «Sembra esserci un serio dibattito interno riguardo alla legislazione sull’hijab e alla sua applicazione» precisa Alfoneh. «La legge è stata inizialmente imposta in parte per interpretazione della Sharia, in parte come tentativo di intimidire la classe media laica nei centri urbani. La polizia e i Pasdaran sembrano favorevoli a non applicarla alla lettera, per ridurre le tensioni. I leader religiosi sciiti, invece, ne chiedono il più severo rispetto temendo di perdere il potere».
Molti analisti intravedono i problemi che dovrà affrontare il movimento di rivolta e i limiti della sua azione. «Ciò che manca ai manifestanti» aggiunge Alfoneh «è una visione di ciò che vogliono, piuttosto che di ciò a cui si oppongono». L’Iran nel frattempo vuole cercare spazi in mezzo alla crisi energetica causata dall’invasione russa dell’Ucraina, per esempio fornendo a Mosca i droni kamikaze Shahed-136. E prova pure a giocare altre carte. Per esempio lascia intendere che un ritorno sul mercato del proprio gas e petrolio potrebbe aiutare l’Ue: la Repubblica islamica possiede le seconde riserve di gas naturale al mondo dopo la Russia, e c’è chi sostiene che sia il motivo per cui i governi europei hanno fatto ben poco per impedire che continui la mattanza in Iran. «Il regime spera che diano priorità al fabbisogno energetico e non ai diritti umani» chiosa Alfoneh.
Gli scenari prossimi sono imprevedibili. La teocrazia potrebbe essere a rischio se non ci saranno riforme sostanziali. Oppure, sostengono altri analisti, proteste, impiccagioni dei dissidenti, morti e violenza diventeranno la nuova normalità dell’Iran. E anche questo sarebbe un esito drammatico. Ciò che è certo è che i giovani iraniani non vogliono rinunciare ai loro ideali. La scrittrice Nava Ebrahimi non ha dubbi sulle sue connazionali, e dice a Panorama: «Non posso dare loro nessun consiglio. Sanno meglio di me cosa fare. Ci vuole molto rispetto. Sono intelligenti e coraggiose. Spero con tutto il mio cuore che alla fine trionferanno». Ma dall’auspicio alla realtà il percorso resta lungo.