Berlino è caduto un altro muro e come nel 1989, a pagare, saranno gli europei e segnatamente gli italiani. È venuta giù la «cortina di ferro» del rigore di bilancio e cade anche l’addio alle armi. Sotto le macerie di questo muro immateriale si seppellisce anche il modello economico tedesco immaginato da Helmut Kohl, ma assurto a comandamento europeo con Angela Merkel che ha sfruttato furbizie, menzogne, egemonie burocratiche. La cancelliera di ferro ripeteva: ciò che nuoce alla Germania, nuoce all’Europa. Ma adesso le cose sono cambiate. Perché Berlino è insieme l’economia più ferma di tutto il continente, la porta d’accesso della Cina – e non è un caso che Ursula von der Leyen, delfina di Merkel, alzi il diapason della polemica con Washington – e il primo motivo di contrasto tra l’Europa e gli Usa.
Il cancelliere designato Friedrich Merz si è fatto approvare dal Bundestag lo sforamento di bilancio e si riarma scommettendo 500 miliardi, che possono arrivare fino a mille sulla sua industria, sulle infrastrutture, sull’ammodernamento del Paese. Particolare attenzione va posta agli investimenti nei porti. L’affezione di Donald Trump per la Groenlandia nasce dal fatto che i cinesi vogliono sfruttare la rotta artica: così fosse, Amburgo sarebbe il primo scalo europeo, tagliando fuori il Mediterraneo. Ancora una volta la Germania si fa ricca in danno dell’Italia. Non è difficile notare che tutte le strategie che la Von der Leyen sta mettendo in campo da Bruxelles hanno come primo obiettivo di salvare i conti della Repubblica federale. Ma è complicato se la crisi è – come sembra evidente – frutto di un modello ora in panne.
Per almeno tre lustri la politica economica tedesca si è giocata su tre elementi: moderazione salariale, esportazione – soprattutto verso la Cina – con la massima aggressività possibile tenendo al palo i partner europei più temibili con il rigore di bilancio – l’Italia è stata inchiodata dalle politiche di austerità imposte da Bruxelles – e costo dell’energia irrisorio perché si acquistava il gas da Vladimir Putin. Nel 2014, dopo l’invasione della Crimea, per conto dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, la Germania per prima doveva essere garante della stabilità dei confini in Ucraina. La cancelliera di ferro però dopo il disastro atomico di Fukushima – siamo nel 2011 – iniziò a spegnere le centrali nucleari per «attaccarsi al tubo» del gas di Putin. È una maldicenza ritenere che non si volesse disturbare l’inquilino del Cremlino, mentre oggi si è disposti a fare la faccia cattiva?
Risalendo nel tempo si possono leggere cifre molto significative: sono i nodi venuti oggi al pettine. La Germania nel 2014 aveva un debito nascosto di almeno 600 miliardi di euro: quello dei Länder che data la struttura federale non emerge nel bilancio tedesco e dunque non conta ai fini dei parametri di Maastricht. Quei debiti sono ancora tutti lì. Come costante è l’economia sommersa che vale il 13 per cento del Pil (circa 520 miliardi) e nasconde con i mini-job (anche i tedeschi praticano il lavoro povero) circa un 20 per cento di disoccupazione. Infine la Germania, al contrario di tutti gli altri Stati europei, continua a mantenere in mano pubblica il sistema bancario – lo sa bene Andrea Orcel che con Unicredit ha osato scalare Commerzbank – con i Lander che controllano circa il 45 per cento del credito. Gli istituti «regionali» sottratti alla vigilanza Bce hanno in pancia 700 miliardi crediti inesigibili. Queste criticità che la locomotiva d’Europa ha tenuto celate mentre faceva la voce grossa per prima con l’Italia costretta a inserire il pareggio di bilancio in Costituzione – e ora siamo gli unici ad averlo – erano note dieci anni fa. Catherine Mann – allora capo economista dell’Organizzazione per la Cooperazione economica e lo sviluppo – avvertiva: l’invecchiamento demografico, l’enfasi eccessiva sull’export, la bassa crescita della produttività e la scarsa domanda interna, sono nodi che la Repubblica federale deve affrontare e risolvere. Non se n’è fatto niente e così la Merkel ha sempre respinto le obiezioni per il surplus commerciale in danno delle altre nazioni del Vecchio continente.
La Germania da 15 anni vìola i tetti mantenendoli costantemente al di sopra dell’8 per cento del suo Pil. Ha accumulato un surplus di oltre duemila miliardi di euro. Uno studio dell’Università Cattolica spiega che nel 2005 Berlino ha compiuto la riforma del mercato del lavoro abbassando i salari, ha depresso con misure fiscali la domanda interna, ha approfittato della convergenza dei tassi d’interesse tra gli Stati aderenti all’euro per aumentare l’export. Ancora nel 2024 la Germania ha chiuso con un surplus commerciale di 245 miliardi, quasi la metà verso gli Stati Uniti, il che giustifica l’aggressività di Donald Trump verso l’Europa. In Cina l’anno scorso Berlino ha venduto per 97 miliardi di euro.
Ma oggi il trend si è invertito: nel 2023 la Germania ha importato dalla Cina circa il 40 per cento in più rispetto al 2019. I tre «fondamentali» del modello tedesco sono in crisi: non c’è più l’energia a basso costo – Berlino nonostante le sanzioni importa ancora il 55 per cento del gas dalla Russia, ma le sue industrie ora pagano 21 centesimi al kilowattora contro gli 8,4 degli americani o dei cinesi – non ci sono più le esportazioni record, perciò la Von der Leyen fa la voce grossa oltre il dovuto con Trump, ma soprattutto è crollato il mito industriale. Da tre anni l’economia tedesca non cresce e negli ultimi due anni (Pil in calo dello 0,3 e dello 0,4 per cento) è stata in recessione. La produzione industriale è crollata del 2,2 e del 4,5 per cento nell’ultimo biennio e la colpa principale è dell’auto azzoppata dal Green deal europeo a cui la Von der Leyen vuol mettere una toppa con la costruzione dei carri armati. Le cifre dell’industria dell’auto sono però impietose: le esportazioni della Repubblica federale verso la Cina, suo primo cliente, si sono dimezzate scendendo a 1,2 milioni di vetture. Lo scorso anno il gigante asiatico ha venduto ai tedeschi cinque milioni di auto. Gli investimenti peraltro sono al palo a causa della politica del rigore esasperata imposta per tre lustri dall’allora ministro delle Finanze Wolfgang Schauble, colui che pretese la caduta del governo Berlusconi nel 2011 e ha affamato la Grecia.
Oggi il presidente della Bundesbank Joachim Nagel insiste: si devono investire da qui al 2030 almeno 220 miliardi. Ma nel 2024 le prime 50 aziende hanno licenziato 60 mila persone e, oggi, quattro aziende su 10 denunciano esuberi. Secondo le stime del banco alimentare di Andreas Steppuhn nel Paese c’è un povero ogni sette abitanti – il totale sfiora i 12 milioni – e dall’inizio della guerra in Ucraina gli assistiti dal banco sono aumentati del 50 per cento a 1,6 milioni. Secondo i servizi sociali sono almeno mezzo milione i tedeschi che vivono per strada, a Berlino ci sono ottomila «homeless» che ora protestano. Mancano almeno 250 mila alloggi. Nell’ex Ddr il reddito pro capite è ancora inferiore del 30 per cento rispetto a quello medio. Si spiega anche così il successo di Alternative für Deutschland con Alice Weidel, la leader che predica una Germania autarchica fuori dall’euro. Il suo successo elettorale è legato alla marginalità sociale: a fronte di un tasso ufficiale di disoccupazione del 6, 2 per cento e di un reddito medio di 24.415 euro là dove AfD trionfa, la disoccupazione è sopra al 9 per cento e il reddito sta sotto i 19 mila euro. Con queste premesse la Germania si riarma fino ai denti, abbandona la politica di rigore, ma continua a imporla col Patto di stabilità agli altri Paesi, vuole la guerra dei dazi per difendere il suo export a danno degli altri. Ma forse è venuto il momento di rifare i conti, per scoprire che Berlino i suoi li ha truccati.