La maggiore marina del mondo rischia di perdere il primato a causa di unità obsolete e investimenti troppo lenti. La Cina, intanto, ammoderna la flotta, con armi cruciali per un eventuale confronto a Taiwan.
Ci sono numeri che fanno più paura di una tempesta. La marina militare degli Stati Uniti, oggi, reclama «urgentemente» da 80 a 100 navi da combattimento per reggere il confronto con le flotte avversarie. È dal 2021, del resto, che gli alti comandi del Pentagono si sono resi conto che la Cina dispone di un numero di mezzi superiore a quello della propria potenza navale. Ma nel luglio 2023 il World directory of modern military warships – il più autorevole e aggiornato catalogo online di tutto quel che nel mondo galleggia e spara – ha certificato che lo Zio Sam è finito sotto anche alla Russia di Vladimir Putin: se Washington oggi ha in acqua soltanto 243 navi pienamente operative tra portaerei, incrociatori, sottomarini, fregate, corvette e cacciatorpediniere, Pechino può contare su 425 unità e Mosca su 265. Anche il confronto tra l’età delle flotte sconcerta: è noto che le navi da guerra russe risalgono in gran parte alla defunta Unione sovietica, e in media hanno oltre 30 anni, ma non tutti sanno che gli scafi della US Navy non sono molto più giovani, con un’età media di 23 anni, mentre la flotta cinese cala drasticamente a 13.
È questa la difficile situazione con cui dovrà convivere Lisa Franchetti, l’ammiraglio a quattro stelle che da settembre sarà il nuovo comandante in capo della flotta americana, se il Senato nei prossimi due mesi ratificherà la scelta di Joe Biden. Come il suo predecessore Mike Gilday, nominato nel settembre 2019, Franchetti dovrà battersi per strappare ai politici un budget in grado di restituire un po’ di credibilità alla Marina militare. È vero che la maggior parte degli osservatori militari ritiene che la US Navy oggi resti la più potente flotta al mondo: ha 11 portaerei, per esempio, contro le tre cinesi (e i russi ne hanno una sola). Ma alcune tra le principali unità americane, ormai, sono anziane: la Nimitz ha 48 anni, la Eisenhower ne ha 46, la Roosevelt 37, la Lincoln 34. E resta il fatto che, in uno studio pubblicato dal Pentagono a fine giugno, si legge che «mancano almeno tra 80 e 100 navi rispetto a quante sarebbero necessarie per garantire la sicurezza nazionale».
Dal 2024, poi, il divario con le flotte concorrenti è destinato ad aumentare: se l’America ha ordinato 67 navi, la Cina ne ha in cantiere 84 (e la Russia 82). E ogni 12 mesi il numero di incrociatori, fregate e sottomarini costruiti da Pechino supera da tre a cinque volte quello prodotto dagli Stati Uniti. I sogni di predominio globale di Xi Jinping, insomma, possono cullarsi su una crescita di unità navali che ogni anno equivale alla flotta inglese. Per quanto riguarda la potenza marina, le scelte di Pechino di solito sono razionali e veloci. Nel 2019, quando Xi ha cominciato a manifestare le sue mire su Taiwan, il Partito comunista cinese ha deciso di dotare l’Esercito popolare di liberazione di 11 grandi navi anfibie d’assalto, e i cantieri le hanno varate già nel 2021. Sarebbero un’arma cruciale, se Pechino decidesse di far partire davvero la tante volte minacciata invasione dell’isola: ognuna di queste unità stazza 35 mila tonnellate ed è capace di trasportare 30 grandi elicotteri da trasporto, più un numero ignoto di velocissimi mezzi da sbarco, soprattutto hovercraft, in grado di dislocare rapidamente migliaia di uomini e mezzi corazzati.
Nelle grandi scelte strategiche marinare, di solito, la US Navy va a rimorchio dei comandi cinesi. E infatti dal 2019 il Pentagono chiede la messa in opera «urgente» di 31 grandi navi anfibie, che nei suoi documenti vengono classificate come «Loading platform docks» e dovrebbero essere destinate proprio al rapido dispiego dei marines nella funesta previsione di un attacco contro Taiwan. Da quattro anni, però, il Congresso continua a frenare. Un problema ancora più grave riguarda i sottomarini americani, soprattutto quelli d’attacco veloci. Questi sono più piccoli dei ciclopici sottomarini balistici, che vengono tenuti in continuo movimento nelle profondità degli oceani, trasportano missili a testata nucleare e sono una dei principali strumenti della deterrenza americana: i «fast-attack submarine» hanno un nome di classe dedicato a uno Stato americano (Virginia, Texas, Hawaii) e sono dislocati là dove può servire un intervento rapido.
L’ultima notizia certa che ha riguardato uno di questi sottomarini d’attacco è uscita lo scorso aprile, al culmine degli attriti tra Israele e l’Iran, quando un mezzo della classe Florida è stato avvistato all’imbocco settentrionale del Canale di Suez. Il guaio è che la US Navy oggi avrebbe bisogno di 66 sottomarini d’attacco veloci, invece ne ha soltanto 49. Negli ultimi cinque anni, contro 10 mezzi previsti, ne sono stati consegnati appena sei. Da qui al 2030, poi, il loro numero scenderà a 46 perché le tre unità più vecchie devono andare in pensione. Meno di un mese fa, inoltre, l’ammiraglio Gilday ha denunciato che «i ritardi nella manutenzione al momento trattengono in cantiere il 40 per cento dei sottomarini d’attacco», quindi almeno 19-20 unità su 49. Si tratta spesso di ritardi che equivalgono a una resa: un sommergibile della classe Connecticut, per esempio, ha subìto un incidente nel Mar Cinese meridionale nel 2021, ma si prevede non tornerà operativo prima del dicembre 2026.
A tutto questo si aggiunge il problema dell’accordo Aukus, che gli Stati Uniti nel settembre 2021 avevano siglato con l’Australia con l’obiettivo di contenere il crescente predominio cinese tra l’oceano Pacifico e quello Indiano. L’accordo, che sul versante tecnologico ha coinvolto il Regno Unito, prevedeva che il Pentagono avrebbe fornito un numero imprecisato (si pensa almeno sei) di sommergibili d’attacco a propulsione nucleare alla marina australiana, ottenendone in cambio l’utilizzo delle basi per i sottomarini statunitensi. Ora emerge che per mantenere l’impegno dell’Aukus, e al tempo stesso per coprire i pericolosi «buchi» nella rete della loro flotta di sommergibili, gli Stati Uniti dovrebbero costruire almeno tre mezzi d’attacco l’anno, mentre la loro effettiva capacità produttiva non arriva a uno. Washington, insomma, si trova costretta a scegliere se tenere fede all’impegno preso con Canberra o perdere ancora terreno con la Cina. Da settembre, in questo mare pericoloso, diverrà fondamentale il ruolo dell’ammiraglio Lisa Franchetti. Riuscirà a portare la Marina americana fuori dalle secche? Di lei tutti dicono sia un tipo tosto. Nel 2018, assumendo il comando della sesta flotta a Napoli, aveva detto che «la US Navy è la polizza di assicurazione dei cittadini europei e dei nostri partner della Nato». Speriamo che a Washington qualcuno ne paghi il premio.