Ad alimentare le sommosse contro il potere di Dina Boluarte sarebbe la Bolivia dell’ex presidente Evo Morales. Il motivo? Garantirsi l’accesso al Pacifico. Ma c’è un altro obiettivo inquietante: unire le due maggiori regioni al mondo per la produzione di cocaina. Un mercato da 100 miliardi di dollari all’anno.
Da settimane il Perù è scosso da sommosse e disordini fomentati dai supporter dell’ex presidente destituito Petro Castillo, contro il governo attuale di Dina Boluarte. Ma dietro alle rivolte, che hanno causato finora una cinquantina di morti, ci sarebbe la Bolivia di Evo Morales, per almeno due motivi economici: l’accesso all’Oceano Pacifico e il mercato della coca.
Ne sono convinti i procuratori e il servizio di intelligence di Lima, che stanno indagando sugli istigatori delle violenze nel sud del Paese. Chi ha sparato lo scorso 9 gennaio uccidendo 19 persone a Juliaca, vicino a Puno, dove duemila manifestanti tentavano l’assalto all’aeroporto locale dopo avere bruciato vivo un poliziotto? La domanda è lecita dal momento che 17 vittime sono state uccise con proiettili «dum dum». Le forze armate peruviane non hanno in dotazione questi proiettili a frammentazione, vietati a livello internazionali, e ora gli inquirenti hanno aperto un’inchiesta ufficiale.
Un traffico di questi proiettili per fucili, diretto al Perù, è stato individuato e sequestrato al confine. Da dove arrivano? «Dalla Bolivia, mentre a sparare potrebbero essere stati peruviani che si dedicano illegalmente all’estrazione dell’oro, al narcotraffico o al contrabbando» ipotizza con Panorama Isabel Recavarren, fondatrice della rivista Panorámica Latinoamericana. Si tratterebbe di gruppi illegali appoggiati dall’ex presidente golpista Pedro Castillo, che durante il suo mandato non ha voluto che si eliminassero le coltivazioni di coca nel Vraem: ovvero la valle dei fiumi Apurímac, Ene e Mantaro, responsabile del 70 per cento delle 400 tonnellate di cocaina prodotte ogni anno nello Stato andino. Un suo feudo e una regione dove la produzione è controllata e gestita dalle ultime due colonne ancora attive di Sendero Luminoso, la guerriglia di ispirazione maoista che ha messo a ferro e fuoco il Perù negli anni Ottanta. Non è un caso che proprio la Compagna Cusi (il nome di battaglia di Rocío Leandro Melgar, ex carcerata), che in quel conflitto di decenni fa giustiziava i condannati dai «processi del popolo», sia stata arrestata, a metà gennaio, con l’accusa di aver finanziato la violenza dei cocaleros, a cui stava distribuendo denaro per sostenere le proteste contro la presidente Boluarte.
«È una violenza programmata da più di un anno quella nel sud del Perù» sostiene Recavarren. Di certo i manifestanti quechua e aymara si sono uniti nel chiedere la rinuncia della Boluarte, che quando era vice di Castillo e membro del suo stesso partito Perú Libre, aveva assicurato a queste popolazioni che «se lui andrà via, andrò via anch’io». Non lo ha fatto, ora guida il Paese dopo l’auto-golpe di Castillo; ma per i gruppi indigeni il suo è un tradimento, manipolato da chi vuole creare il caos nelle zone meridionali. In primis l’ex presidente boliviano Evo Morales, che con Castillo lo scorso anno ha lanciato Runasur, un’organizzazione indigena separatista.
Lo scopo occulto di Runasur, oltre a garantire a La Paz un accesso al Pacifico (cosa che Castillo aveva promesso a Evo Morales), è unire le due regioni di produzione della foglia di coca e della pasta di cocaina di base più grandi del mondo. Il tutto con il pretesto dell’unità indigena anticolonialista. Stiamo parlando di un mercato da circa 100 miliardi di euro l’anno. Per gli interessi del bolivarismo (che punta all’unione politica dei paesi latinoamericani) destabilizzare il Perù è fondamentale. Per questo le milizie dei Ponchi Rossi del Mas, il movimento al socialismo di Morales, addestrano le comunità dell’altopiano peruviano che stanno mettendo a soqquadro il sud del Paese. Del resto è proprio a Lima che nasce nel 1983 il neologismo «narcoterrorismo». All’epoca il Perù era insanguinato da Sendero Luminoso, che attingeva ai soldi della droga per finanziarsi, seminando il terrore e 70 mila morti.
Due fazioni di Sendero Luminoso ancora oggi controllano le zone dei coltivatori indios di coca e, dopo la Colombia, il Perù è il secondo produttore al mondo di cocaina, con piantagioni illegali di oltre 44 mila ettari, quasi tutti nel Vraem: un feudo di Castillo dove Morales offre protezione ad almeno 12 grandi narcotrafficanti, che hanno cambiato nome e oggi hanno passaporti boliviani «puliti». Sono loro, questi nuovi «senderisti» a gestire le operazioni di trasferimento di cocaina su piccoli aerei dal Vraem peruviano verso il Chapare boliviano, dove Evo domina. Non è un segreto che la Bolivia in America latina sia il terzo produttore di questa droga dopo Colombia e Perù, con 275 tonnellate l’anno, così come uno dei tre maggiori Paesi di transito di cocaina al mondo, dopo Venezuela e Myanmar. Del resto, nel 2017, con Morales presidente, era stata varata una legge che aveva raddoppiato la superficie adibita alle piantagioni «legali» a 22 mila ettari, con la motivazione che le foglie masticate dagli indios per mitigare gli effetti dell’altitudine sarebbero parte della loro millenaria cultura medicinale.
Un’enorme «fake news» perché la coca coltivata nel Chapare ha un livello di alcaloide così alto e la foglia è così spessa che, masticata, ha effetti devastanti. Se a questo si aggiunge che la Dea (l’agenzia antinarcotici statunitense) sia stata estromessa dalla Bolivia dallo stesso Evo nel 2008, si comprende come il narcotraffico qui domini, «infiltrato con attività pseudo filantropiche come quelle della Open Society Foundation di George Soros» rivela a Panorama la giornalista Marianela Montenegro, di Cochabamba, in Bolivia.
Da anni la reporter studia i tentativi di legalizzazione delle droghe da parte del magnate ungherese, naturalizzato statunitense, «insieme alla Fondazione Rockefeller». Entrambe, afferma, «usano il paravento del comunismo per derubare i nostri Stati, soprattutto nei settori dei metalli pregiati, oro ma non solo, e con Morales e Castillo sono andati a nozze». Da sottolineare, infine, che Luis Arce, ex ministro dell’Economia nel governo Morales e da ottobre 2020 presidente della Bolivia, ha lasciato riaprire in piena pandemia, a marzo 2021, l’aeroporto di Chimoré, proprio nel cuore del Chapare. Da là atterra e decolla un centinaio di voli. Un traffico aereo quantomeno sospetto. Tanto che numerose agenzie di pilotaggio sono andate nella zona ad aprire uffici, in una regione sperduta dove «nessun giornalista investigativo uscirebbe vivo» assicura un colonnello boliviano. Obiettivo, addestrare persone senza brevetto a pilotare piccoli velivoli: la conferma della piena ripresa della rotta della coca.
«Il Chapare oggi è come l’Amazzonia colombiana ai tempi del Pablo Escobar, che allora si chiamava Tranquillandia, la “Terra tranquilla” perché nessuno dava fastidio ai laboratori di coca del boss di Medellín» spiega un altro giornalista boliviano, con un ultimo dato inquietante: «Nel Chapare vengono addestrati molti guerriglieri che operano in America latina per Morales, supportati dall’intelligence cubana. Oggi anche in Perù».