Questo Paese mediorientale è diventato una sorta di buco nero dove i soldi americani destinati alla popolazione finiscono per alimentare le forze talebane, dove i gruppi del terrore aumentano, dove i collaboratori degli italiani restano bloccati. In attesa di un visto difficile da ottenere perché da noi sbarcano già troppi migranti.
«Abbiamo scoperto alcune informazioni davvero orribili sulle operazioni delle Nazioni Unite in Afghanistan» ha dichiarato senza peli sulla lingua John Sopko, Ispettore speciale per gli aiuti Usa (Sigar) al Paese al crocevia dell’Asia. Il rapporto 2023 dell’organo di controllo americano «identifica gravi rischi nell’utilizzo degli oltre 8 miliardi di dollari resi disponibili dagli Stati Uniti al popolo afghano dopo il ritiro nell’agosto 2021». A cominciare dal «pizzo» preteso dai talebani, la mancanza di seri controlli sulla distribuzione degli aiuti, le interferenze e violenze dell’Emirato islamico con Nazioni Unite e Ong. Il disastro è completo se aggiungiamo la crescita dei gruppi del terrore nel Paese e i 2.970 collaboratori afghani delle nostre truppe, con i loro familiari, che non abbiamo ancora portato in salvo, nonostante le promesse.
«Dopo avere atteso l’evacuazione per due anni non so quando sarà il turno per la mia famiglia. Quanto tempo ci vorrà ancora? Vi prego ascoltateci. Siamo disperati» è l’ultimo messaggio inviato a Roma da M. R., uno dei nostri collaboratori afghani. Nonostante sia inserito da tempo nella lista di evacuazione e abbia superato i controlli di sicurezza previsti, da oltre un anno langue in Iran dopo essere fuggito da Herat. Forse sarà fra i «fortunati», che partiranno finalmente in ottobre.
A fine agosto erano rimasti indietro circa 3 mila afghani con i loro familiari. Quasi 900 hanno già superato la fase dei controlli di sicurezza. Prima la Difesa controlla che abbiano effettivamente lavorato con i nostri contingenti, come interpreti, nella logistica o altro, e poi il ministero dell’Interno effettua un secondo «vetting» come si dice in gergo. L’operazione Aquila Omnia, partita qualche mese prima del drammatico ponte aereo di Kabul già in mano ai talebani, ha portato in salvo 6.025 afghani. L’ultima parola spetta al Viminale che a seconda dei posti disponibili dà il via libera alla Farnesina per il rilascio dei visti umanitari. «Nell’evacuazione abbiamo incluso tutti, forse pure qualcuno che non lo meritava, ma il problema è la mancanza di posti a causa dell’ondata di immigrazione illegale» spiega il generale in congedo Giorgio Battisti. «L’Italia ha accolto anche i rifugiati ucraini, però dovremmo fare uno sforzo maggiore per chi è stato al nostro fianco».
Il paradosso è che i profughi in fuga dalla guerra, che hanno diritto all’asilo, restano indietro e chi arriva illegalmente con i barchini viene accolto in Italia. Non sempre, però, va a finire bene. «Tra le vittime del naufragio di Cutro c’era anche l’ufficiale afghano Nari Ahmad Zainel con la moglie e i due figli, che ha collaborato con noi a Herat» racconta Battisti. «È triste notare che non sia stato possibile evacuarlo, come altri suoi connazionali che hanno combattuto al nostro fianco, con i corridoi umanitari». La pianificazione dell’evacuazione da Teheran con voli di linea va a rilento: due o tre al mese, se non saltano prima, con una media di 20-30 afghani alla volta. L’ex ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha postato sulla sua pagina Facebook le foto dell’ultima protesta del 21 agosto a Teheran, nei pressi dell’ambasciata italiana, di una quarantina di collaboratori afghani con mogli e figli. Una bambina mostrava il certificato di apprezzamento del padre firmato da un ufficiale italiano per essere stato al fianco dei nostri soldati in Afghanistan «shona ba shona», spalla a spalla. Uno striscione con la bandiera afghana e il Tricolore non lasciava dubbi: «Noi colleghi delle forze internazionali della Nato chiediamo di rilasciare i nostri visti il prima possibile».
Trenta riporta i messaggi disperati ricevuti da alcuni afghani rimasti indietro: «Non ho più soldi… non posso comprare da mangiare. Non ho niente da vendere… Dicono che pagano bene (i reni, ndr)». E lancia l’ennesimo appello: «Da italiana mi vergogno di fronte a loro per la nostra lentezza e mi chiedo come sia possibile. Aiutamoli!». A dire il vero siamo in buona compagnia nelle mancate promesse ai collaboratori afghani che temono la vendetta talebana. L’ultimo rapporto Sigar (Ispettore generale speciale per la ricostruzione in Afghanistan) denuncia che «circa 175 mila afghani stanno aspettando che il governo degli Stati Uniti elabori il loro visto di immigrazione speciale – Siv – o la richiesta da rifugiato». Molti sono nel limbo, dopo la fuga in paesi come Pakistan, Emirati arabi, Albania e Qatar. «Al ritmo attuale ci vorranno 31 anni per ricollocare e reinsediare tutti i richiedenti» afferma il rapporto.
Un altro disastro, evidenziato dal Sigar, è l’utilizzo dei fondi per gli aiuti internazionali. Gli Usa hanno stanziato 2,35 miliardi di dollari solo «per finanziamenti umanitari e lo sviluppo, principalmente attraverso agenzie dell’Onu e Ong». Il problema è che «i talebani interferiscono sempre di più nella attività delle Nazioni Unite e delle Organizzazioni non governative» rivela il rapporto «limitando la loro capacità di fornire aiuti». L’Emirato è riuscito «a deviare i finanziamenti internazionali per l’istruzione dalle scuole Hazara (minoranza sciita, ndr). Allo stesso modo ha limitato l’accesso degli Hazara agli aiuti umanitari».
Per di più applicano un vero e proprio «pizzo», come aveva in parte fatto il governo precedente. Il sistema si basa «sull’imposizione di oneri doganali sulle spedizioni (umanitarie, ndr), tasse direttamente imposte alle Ong e commissioni aggiuntive per i fornitori». Non solo: addebitano alle strutture umanitarie tariffe speciali «per l’uso di auto private, motociclette, biciclette e bestiame». Oltre al pizzo l’Onu ha segnalato 494 episodi di interferenza e 362 di violenza e minacce nei confronti del personale umanitario dal novembre 2022 al febbraio 2023. Le limitazioni imposte alle donne, compreso il lavoro nel campo degli aiuti, hanno provocato la sospensione della attività di colossi come International Rescue Committee, Islamic Relief, Cordaid e Norwegian Refugee Council. Una relazione dell’Onu di luglio sul terrorismo, che si basa sulle informazioni di intelligence degli Stati membri, ha confermato che «al-Qaeda considera l’Afghanistan amministrato dai talebani un rifugio sicuro». L’allarme, sminuito dalla Cia, è che la rete del defunto Bin Laden conti nel paese fra i 30 e 60 comandanti di livello con 400 miliziani e «una serie di nuovi campi di addestramento». Lo Stato islamico del Khorasan, che si batte contro il regime talebano considerato troppo moderato, avrebbe fra i 4 mila e 6 mila adepti sparsi in 13 province.
Non è un caso che il leader della resistenza filo occidentale, Ahmad Massoud, stia preparando un viaggio entro l’anno in diversi paesi europei per chiedere appoggio. Il figlio del leggendario Leone del Panjshir vorrebbe incontrare anche il presidente del Consiglio Giorgia Meloni. L’obiettivo è denunciare «l’espansione dei collegamenti fra talebani, al Qaida e altri gruppi del terrore, che rappresenta un grave rischio per la sicurezza globale».