I primi due sversamenti in mare del liquido di raffreddamento della centrale nucleare giapponese (l’ultimo, pochi giorni fa) continuano a far discutere. Ma quanto è davvero pericolosa la sua radioattività? Gli esperti smontano, dati alla mano, i facili preconcetti.
Fukushima come Chernobyl, un nome ineluttabilmente legato al disastro nucleare per definizione: così, le acque della centrale giapponese, che il Giappone ha iniziato sversare nell’oceano Pacifico per mancanza di spazio per contenerle, hanno sollevato proteste, indignazione, paure. Il rilascio in mare del liquido utilizzato per raffreddare i reattori, dopo l’incidente del 2011, ha suscitato le ire di Greenpeace, delle associazioni ambientaliste, del Forum delle Isole del Pacifico, della Corea del Sud, persino della Cina, che non eccelle certo in salvaguardia ecologica. In fatto di Co2, per esempio, Pechino detiene il record di produzione: nel 2021 rappresentava il 33 per cento del totale mondiale.
Il Giappone, peraltro, ha fatto di tutto per ridurre al massimo l’impatto ambientale. Ha filtrato l’acqua con tecnologie Alps, Advanced Liquid Processing System, atte a eliminare quasi ogni sostanza potenzialmente dannosa per salute ed ecosistema. Ha atteso il via libera dell’Agenzia internazionale per l’energia etomica (Aiea), l’organo dell’Onu sul nucleare, secondo cui tale piano di rilascio, che durerà tra i 30 e i 40 anni, è sicuro. Ha infine garantito che i liquidi sarebbero stati eliminati attraverso un tunnel sottomarino lontano un chilometri dalla costa. E che sarebbero arrivati nell’oceano già ampiamente diluiti dal mare.
Il primo sversamento è avvenuto il 24 agosto: nel giro di 17 giorni sono stati scaricati 7.800 metri cubi d’acqua dalla Tokyo Electric Power Company (Tepco), l’azienda energetica che gestisce l’ex centrale nucleare. Il secondo rilascio è avvenuto il 5 ottobre, con 460 tonnellate al giorno. Tutta l’operazione sarà scandita da quattro fasi, per un totale di 31.200 tonnellate entro fine marzo 2024. L’Aiea ha certificato, dopo un esame dei campioni di liquido, che la concentrazione del trizio radioattivo era «ben al di sotto del limite operativo consentito di 1.500 becquerel per litro». Perché il problema, alla fine, è tutto nel trizio, il terzo isotopo radioattivo dell’idrogeno, dopo il prozio e il deuterio, presente in natura, in mare e nell’aria (viene prodotto continuamente dall’interazione dei raggi cosmici con l’azoto nell’alta atmosfera).
Tuttavia secondo la Cina, il trizio potrebbe essere più nocivo di quello che si pensa oggi visto che non ci sono studi a lungo termine che ne certifichino la sicurezza. Inoltre la tecnologia Alps elimina sì 62 radionuclidi dall’acqua trattata, ma non questo elemento. Quindi ha deciso di sospendere le importazioni di prodotti ittici dal Giappone. Perché organi accreditati come Aiea, Onu e altri non considerano questo sversamento un pericolo mentre Cina , Corea del Sud e del Nord lo definiscono «una decisione irresponsabile»? Perché per Greenpeace «viola i diritti umani delle comunità che vivono in Giappone e nella regione del Pacifico e non è conforme al diritto marittimo internazionale?».
Siamo tutti in pericolo? «No, siamo ampiamente sotto la soglia che potrebbe preoccupare» afferma l’ingegner Alessandro Dodaro, direttore del dipartimento Fusione e tecnologia per la sicurezza nucleare dell’Enea. «Quando si ha il permesso di usare sostanze radioattive, come un centro di medicina nucleare, un laboratorio di radiochimica, un istituto di ricerca, si ha anche la cosiddetta “formula di scarico”. Ossia: una procedura che permette di scaricare nell’ambiente quantitativi di acqua contenente materiale radioattivo. È una pratica comune in tutto il mondo, si fa da anni seguendo precise normative. Anche in Cina le centrali nucleari hanno via libera per liberarsi di piccoli quantitativi di radioattività. L’acqua di Fukushima contiene la stesso quantità di trizio delle centrali cinesi dissolta in mari e fiumi della Cina. E senza danni all’ambiente o alla popolazione». Come mai allora Pechino blocca l’importazione dai mari Giapponesi? «Di certo non per una questione di sicurezza. Probabilmente ci sono motivazioni di altra natura».
Tirando le somme, la radioattività è presente ovunque. «Di due tipi: naturale e artificiale» precisa Dodaro. «Per esempio, in piazza San Pietro c’è il granito, che contiene uranio. Nel potassio naturale c’è l’isotopo 40. Il corpo umano contiene potassio e calcio. Così come le banane, ricche di potassio. Il trizio è stato prodotto dall’uomo, ma non è diverso dagli altri materiali radioattivi naturali, anzi, è meno radioattivo di potassio e calcio». Per quanto riguarda il Giappone, «L’Aiea ha concesso l’autorizzazione dopo un’attenta analisi dei dati forniti e un successivo controllo degli stessi. In Italia abbiamo una formula di scarico derivata dalla normativa europea per la gestione del materiale radioattivo, decreto 101 del 2020. Se si è al di sotto del valore stabilito del danno all’ambiente, che è pari a zero, si può procedere senza problemi».
Anche chi è dalla parte degli animali, a stretto contatto quotidiano con loro, non esprime particolari timori. «Essendo cauta per natura, dico che gli effetti reali li scoprirà nel tempo la ricerca che sicuramente verrà svolta. Ma gli esperti mondiali di sostanze chimiche sono concordi nel ritenere i livelli di radioattività dell’acqua sversata davvero bassi» dice Claudia Gili, medico veterinario specialista di organismi acquatici e direttore del dipartimento Cape della Stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli. «In genere la tossicità da sostanze radioattive dipende dalla dose, dal tempo di esposizione. Se alta può avere effetti immediati molto gravi, e non è proprio questo il caso, o più avanti nel tempo, in sinergia con fattori casuali. Ma mi risulta che il Giappone abbia fatto una valutazione molto oculata della procedura».
Secondo gli esperti, fanno più danni i disastri con inquinanti a petrolio, che rendono l’ambiente tossico a lungo distruggendo l’avifauna e impattando su molte creature marine. «Negli anni a venire, le specie animali stanziali o gli invertebrati ancorati al substrato, che non hanno la possibilità di migrare, saranno un ottimo osservatorio per studiare gli effetti dello svarsamento e le strategie di eliminazione» conclude Gili. «Ne riparleremo in futuro, risultati alla mano». E senza pregiudizi.