Spesso, molti leader e media europei restano scandalizzati dagli atti e dalle dichiarazioni di Donald Trump. E allora si generano narrazioni macchiettistiche che dipingono l’attuale presidente americano come un «imperialista», un «autocrate», un «isolazionista» e così via. In realtà, si tratta di fraintendimenti che, più o meno in malafede, non colgono la prospettiva da cui il tycoon tende a muoversi nelle questioni di politica internazionale.
Nel Vecchio continente troppo frequentemente non si capisce (o si finge di non comprendere) come l’attenzione di Trump non sia concentrata sull’Europa ma sul «Sud globale», la parte del mondo dove attualmente sono concentrate vastissime risorse e con maggiore prospettive di crescita per popolazione. Trump ha infatti compreso che, durante i quattro anni dell’amministrazione Biden, gli Stati Uniti hanno perso significativamente influenza su questa vasta area, complessa e articolata: il tutto a netto vantaggio della Cina.
Uno dei principali punti di svolta si è verificato nell’agosto 2021, quando l’ex presidente democratico attuò il disastroso ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan. Il crollo repentino di Kabul in mano ai talebani e le drammatiche immagini dei disperati aggrappati agli aerei in partenza hanno inferto un durissimo colpo alla credibilità internazionale di Washington. E ciò è accaduto in due sensi. Primo: la capacità di deterrenza americana si è indebolita, tanto che, pochi mesi dopo la crisi afghana, la Cina ha aumentato la pressione militare su Taiwan e la Russia ha intensificato l’ammassamento di truppe al confine con l’Ucraina. Secondo: le immagini di quegli aerei in partenza hanno scioccato ampie parti del Sud globale, che hanno progressivamente messo in dubbio l’affidabilità statunitense.
Qualcuno potrebbe obiettare, ricordando come il ritiro dal tormentato Paese asiatico rientrasse in un accordo che era stato lo stesso Trump a concludere con i talebani, nel febbraio 2020. In realtà, la situazione è più complessa. Entrato in carica il 20 gennaio 2021, Joe Biden non era vincolato a quell’intesa: avesse voluto, avrebbe potuto cassarla o rinegoziarla.
E infatti fu lui stesso a prendere la decisione finale a favore del ritiro: decisione che annunciò il 14 aprile 2021. Tra l’altro, l’allora presidente mutò i termini dell’accordo siglato da Trump: l’intesa originaria prevedeva che il ritiro dovesse essere completato entro maggio 2021. Biden spostò invece la deadline all’11 settembre di quell’anno. Questo per dire che non c’era alcun automatismo. E che comunque la gestione operativa del ritiro ricade sotto la responsabilità della sua amministrazione.
Ebbene, dopo il disastro afghano, l’influenza americana sul Sud globale è diventata sempre più traballante. E la Cina ne ha approfittato. A giugno 2022, Reuters riportò che, dall’entrata in carica di Biden, Pechino aveva «ampliato il divario con gli Stati Uniti in termini commerciali in vaste aree dell’America latina». Era inoltre marzo 2023, quando il Dragone mediò con successo una distensione diplomatica tra Arabia Saudita e Iran, guadagnando così terreno in Medio Oriente a discapito di Washington.
Negli ultimi anni, l’America ha riscontrato difficoltà anche in Africa: basti pensare che, a settembre 2024, Biden è stato costretto a ritirare i soldati americani dal Niger. Sempre nel 2024, il blocco dei Brics – gli Stati non allineati – si è allargato ad altri Paesi, tra cui Emirati Arabi, Egitto e Iran. Tutto questo, senza trascurare la conferenza di pace tenutasi in Svizzera l’anno scorso sulla crisi ucraina. Il documento finale, in cui si sosteneva l’integrità territoriale dell’Ucraina, non fu firmato da vari Paesi appartenenti al Sud globale, a partire da India e Arabia Saudita.
Trump ha dunque preso atto del fatto che gli Stati Uniti si sono ritrovati con le spalle al muro. E sta cercando di invertire il trend. Marco Rubio ha effettuato il primo viaggio da segretario di Stato in America Latina: un viaggio che il diretto interessato ha condotto in funzione anticinese, riuscendo a convincere Panama a non rinnovare la sua adesione alla Belt and Road Initiative.
Dall’altra parte, la direttrice dell’Intelligence nazionale, Tulsi Gabbard, si è recata di recente in India, qui incontrando il premier Narendra Modi: quel Modi che a febbraio era già stato ricevuto alla Casa Bianca. Con tutto questo, Trump, nel processo di pace sull’Ucraina, ha riconosciuto un ruolo centrale all’Arabia Saudita, che ha finora ospitato buona parte dei colloqui avuti dagli americani con russi e autorità di Kiev. Senza trascurare che l’attuale presidente americano sembra caratterizzarsi per un interesse verso il continente africano. A febbraio ha ordinato bombardamenti contro l’Isis in Somalia, mentre i vertici di Africom hanno avuto degli incontri in Libia con le autorità di Tripoli e Bengasi.
Tutto ciò, senza trascurare che uno dei principali obiettivi di Trump è separare il più possibile Mosca da Pechino: il presidente sa che Vladimir Putin teme l’abbraccio soffocante con Xi Jinping. In cambio di un ammorbidimento russo sulla crisi ucraina, ha quindi proposto allo zar una prospettiva di accordi economici che possano ridurre sensibilmente la sua dipendenza dalla Cina. Tra l’altro, l’obiettivo di separare le due superpotenze è funzionale anche a rafforzare ulteriormente le relazioni di Washington con Nuova Delhi: l’India gode infatti storicamente di buoni rapporti con Mosca nel settore della Difesa in funzione anticinese.
Insomma, se si vuole capire il presidente americano non si può prescindere da quella che è la sua principale finalità: contendere alla Cina l’influenza sul Sud Globale. Gli atti e le dichiarazioni di Trump andrebbero quindi principalmente letti con le lenti dei Paesi appartenenti all’ex Terzo mondo. Questo poi ovviamente non significa che per la Casa Bianca la strada sia in discesa né che Pechino se ne starà ferma a guardare. Vuol dire però comprendere che, per Trump, è impellente uscire dall’isolamento in cui Biden aveva fatto piombare Washington per quanto riguarda i Paesi emergenti.
Il punto allora non è che, come viene sostenuto, il neopresidente «ha abbandonato» l’Europa. È semmai il Vecchio continente che, davanti a un esponente repubblicano alla Casa Bianca, sta voltando le spalle agli Stati Uniti. E ciò sta avvenendo soprattutto a causa della miopia di Francia e Germania. Anziché aprire dei negoziati sui dossier commerciali e allinearsi all’America nel suo approccio severo nei confronti di Pechino, stanno infatti spingendo Bruxelles ad aumentare le tensioni con Washington. D’altronde, nell’ultimo biennio dell’amministrazione Biden, sia Parigi sia Berlino hanno rafforzato i loro rapporti con la Repubblica popolare cinese. Il problema è che, per inseguire le velleità franco-tedesche, l’Unione europea rischia di condannarsi a un’ulteriore irrilevanza geopolitica: prova ne sia la sua totale assenza di peso nel processo diplomatico sull’Ucraina.
Tuttavia, attenzione: il crescente interesse di Trump per il Sud globale può rappresentare una buona notizia per l’Italia. Nel momento in cui, come sembra, la Casa Bianca dovesse cercare di recuperare influenza in Africa, Roma potrebbe giocare di sponda con Washington nel quadro del Piano Mattei, il programma di sviluppo che il nostro Paese sta attuando. Sempre in questa prospettiva, nel caso in cui il presidente americano volesse estendere gli Accordi di Abramo al Maghreb, Giorgia Meloni potrebbe svolgere un ruolo di mediazione, visti i solidi legami che il suo governo ha tessuto tanto con Tunisi quanto con Tripoli. Il segreto, alla fine dei conti, sta nel comprendere la logica che muove il presidente americano e comportarsi di conseguenza, per tutelare al meglio il nostro interesse nazionale. Ecco perché non è la via tracciata da Parigi e Berlino quella da seguire.