Dall’allarmismo climatico alla drammatizzazione dell’inquinamento. A questi eco-catastrofismi ora si contrappone un pensiero costruttivo, che propone progetti e soluzioni realistiche per i problemi dello sviluppo. Oltre l’ideologismo verde.
«Domani sarà peggio». Anzi, «l’umanità sta andando verso l’estinzione». Questo sembra il sentimento diffuso riguardo ai cambiamenti climatici, perfino tra le generazioni più giovani, proprio loro che dovrebbero costruire con ottimismo un futuro migliore di quello di chi li ha preceduti. Lo sostengono varie indagini su scala globale, non ultima quella pubblicata sul sito online The Lancet Planetary Health, secondo cui, su 100 mila ragazzi tra 16 e 25 anni, il 75 per cento ritiene che la fine dell’umanità sia vicina. Se la stessa ricerca mostra che il 26 per cento dei giovani annovera il «climate change» tra le cause primarie o secondarie per non desiderare figli, un’altra ricerca dell’Institute of Labor Economics evidenzia che il 60 per cento degli ambientalisti è meno propenso a procreare rispetto agli altri. Segno evidente che la paura dell’emergenza climatica arriva a influenzare pesantemente la scelta di avere una famiglia. D’altra parte, l’umanità ha attraversato diversi periodi nei quali il catastrofismo dilagava. In pieno Medioevo, quando imperversavano epidemie, carestie e saccheggi di popolazioni nomadi venute dall’Est, schiere di monaci e predicatori profetizzarono la fine del mondo esattamente nell’anno Mille.
Come allora, anche oggi gran parte del pessimismo si nutre di errate percezioni e di una sostanziale ignoranza riguardo alle opportunità offerte dallo stesso bisogno di raggiungere una maggiore sostenibilità ambientale. Ciò non significa negare che la nostra specie abbia di fronte a sé sfide difficili. Semmai cambiare la prospettiva prendendo atto che, in realtà, abbiamo compiuto enormi passi avanti e ci avviamo a costruire un mondo diverso, più equilibrato, non necessariamente peggiore di quello attuale. È anche la prospettiva di Hannah Ritchie, ricercatrice del Programma per lo sviluppo globale dell’Università di Oxford e responsabile del centro di ricerca Our World in Data: il suo libro Non è la fine del mondo (Aboca Edizioni) è un utile antidoto al pensiero negativo che sta portando l’umanità a una sorta di rassegnazione nei confronti di un disastro imminente e inevitabile. Ritchie, che pubblica regolarmente analisi sui problemi del pianeta con testate quali New York Times o Financial Times, non è la sola ad affermare che non siamo per nulla condannati. Altri autorevoli climatologi italiani, come Giulio Betti del Consorzio Lamma (Laboratorio di monitoraggio e modellistica ambientale) e del Ibe-Cnr di Firenze, ritengono che guardare al futuro con ottimismo sia non solo possibile, ma più che mai necessario. Quella che segue è una breve ricognizione dei più urgenti problemi del pianeta, basata sui dati e le considerazioni fatte con Panorama dagli studiosi citati, in una prospettiva che li considera risolvibili e che contesta alcune false convinzioni.
Infrastrutture più solide contro le emergenze naturali
Secondo i dati riportati da Ritchie, dal 1920 in poi il numero di decessi ogni 100 mila persone per disastri naturali e per decennio è sempre stato in calo. E non perché la frequenza dei fenomeni estremi sia diminuita; il punto è che i nostri sistemi di infrastrutture, monitoraggio e reazione si sono evoluti diventando molto più efficienti. Eppure, uno studio di qualche anno fa di Gapminder, fondazione svedese che combatte le false convinzioni, ha mostrato che il 90 per cento di un campione di persone di 18 Paesi era convinto che non vi fosse stata alcuna riduzione e, anzi, il 48 per cento credeva che il numero dei morti fosse più che duplicato.
«Temo questo scollamento dalla realtà» scrive Ritchie. «Per esempio, il quotidiano The Guardian pubblica storie tremende a ritmo continuo ritenendo che possa così dimostrare il suo impegno nel salvare il pianeta». Questo genere di narrazione, diffusa anche nel nostro Paese, ci fa perdere di vista un fatto fondamentale: gli esseri umani sono stati sempre capaci di adattarsi a un pianeta che per una ragione o per un’altra non è mai stato «sostenibile».
Di contro, ciò non deve farci dimenticare che «non è scontato che i decessi a causa dei disastri ambientali diminuiranno. Esiste, anzi, una concreta possibilità che il surriscaldamento globale porti a un’inversione di questa tendenza se non riusciamo a rallentare il cambiamento climatico». Ridurre gli impatti dei fenomeni estremi è quanto mai necessario e, dati i costi, non può che dipendere dalla crescita economica. Ritchie sottolinea però che tale incremento economico sia compatibile con la riduzione delle emissioni: «Dal 1990, nel Regno Unito, il Pil è aumentato del 50 per cento e le emissioni a livello nazionale si sono dimezzate, senza essere spostate all’estero; in Germania, le emissioni interne al Paese e quelle basate sul consumo reale sono scese di un terzo mentre il Pil è salito del 50 per cento. In Francia, le emissioni a consumo si sono ridotte di un quarto e il Pil pro capite è cresciuto di un terzo. Negli Stati Uniti, già a partire dal 2005 le emissioni sono risultate in calo del 25 per cento sia considerando i confini nazionali che tenendo conto della delocalizzazione».
L’adattamento al calore
Frenare l’aumento della temperatura media globale di 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali, deciso alla Conferenza sul clima di Parigi del 2015, viene interpretato come «o così o la catastrofe». «È un numero importante, ma non è che superata quella soglia sarà impossibile vivere sulla Terra» dice Betti. «Ormai sappiamo che l’obiettivo di un grado e mezzo è irraggiungibile. Lo scenario più probabile, con l’attuale politica di mitigazione, è di un aumento tra i 2,4 e i 2,7 gradi entro il 2100. Sono temperature che si traducono in impatti molto negativi sull’ambiente, ma non bisogna neppure dimenticare che la stessa Ipcc ritiene ormai poco probabile il peggiore di tutti gli scenari possibili, l’aumento di 4 o 5 gradi entro la fine del secolo».
Stiamo seguendo un andamento intermedio che potrebbe condurre ai 2,5 gradi entro fine secolo, se gli impegni di riduzione delle emissioni saranno mantenuti. In caso contrario, ci si rimetterebbe nella traiettoria peggiore. «È indubbiamente una buona notizia. Non ci sono valide ragioni per ritenere che tutto sia perduto: abbiamo chiaro quale sarà il nostro prossimo futuro climatico, sappiamo che ci saranno impatti sulla biosfera ma abbiamo le tecnologie necessarie per la mitigazione e l’adattamento» aggiunge Betti. «Dobbiamo però tenere a mente che il nostro futuro sarà tanto migliore quanto prima cominceremo ad attuare gli obiettivi necessari. Per esempio, entro i prossimi vent’anni dovremo adattarci a estati che in Italia, ma anche nel Centro Europa, saranno molto più calde. Sarà quindi cruciale che le città si dotino di parchi e di strade e di materiali hi-tech capaci di riflettere una maggiore quantità di luce solare». E lo scienziato conclude: «Un altro esempio è l’aumento del livello del mare di circa 30 centimetri nei prossimi 50-60 anni; significa che durante le mareggiate l’acqua penetrerà nel territorio fino a 300 metri in più rispetto a oggi. Dovremo adattarci, spostando le nostre attività verso zone più sicure».
Occorrerà poi riconcepire le pratiche agricole. Queste ultime contribuiscono alle emissioni di carbonio attraverso perdite di materiale organico al suolo, deforestazione per creare spazio per le coltivazioni, uso diretto di combustibili fossili. Tra le pratiche che si stanno diffondendo c’è il «sovescio», cioè l’interramento con aratura di specie erbacee spontanee, le colture intercalari, cioè l’inserimento di specie a rapido sviluppo tra le colture principali, l’uso di concimi organici che sequestrano carbonio, la rotazione delle specie coltivate al fine di non alterare la fertilità, la sostituzione di specie meno resistenti alla siccità dove necessario, la pratica di mantenere alberature negli spazi inutilizzati attorno ai campi e i canali dell’acqua.
C’è un’aria migliore
«Molti di noi hanno la fortuna di respirare un’aria molto più pulita di quanto lo sia stata per secoli» afferma Ritchie. «Nel Regno Unito, ma anche in Canada, Stati Uniti Francia e Germania, le emissioni degli agenti inquinanti sono una frazione di quelli di una volta. Nel Regno Unito l’ossido di azoto è sceso del 76 per cento se paragonato al suo picco massimo, così come il particolato carbonioso, diminuito del 94 per cento, i composti organici volatili del 73 per cento e, infine, il monossido di carbonio del 90 per cento».
L’inquinamento atmosferico non è una novità di oggi. Una ricerca sui denti fossili di «progenitori» degli esseri umani vissuti 400 mila anni fa ha trovato tracce inquinanti prodotte dalla legna che arde. «Basta bruciare qualcosa per contaminare l’atmosfera» nota Stefano Caserini che insegna mitigazione dei cambiamenti climatici e dell’impatto ambientale all’Università di Parma. «Non solo la qualità dell’aria è migliorata ma abbiamo maggiori conoscenze sui danni alla salute causati dall’inquinamento. E sono proprio queste conoscenze che ci portano a preoccuparci, giustamente, del problema».
Tra il 2013 e il 2020, l’inquinamento di Pechino è calato del 55 per cento e, come conseguenza, l’aspettativa di vita di un cittadino medio è aumentata di 4,6 anni. «È un risultato riconducibile a volontà politica e risorse economiche. La verità è che l’inquinamento atmosferico è in rapido calo in molti Paesi con reddito medio-alto. La stessa Milano, 50 anni fa, per alcuni inquinanti aveva livelli doppi di quelli attuali» aggiunge Caserini. «Il problema adesso è che la parte più povera del mondo si affida ancora alla legna come fonte di energia. E la legna inquina più del carbone, che è peggio del cherosene, a sua volta più dannoso del metano. Quello che occorre dunque fare è ridurre le diseguaglianze».
Tra deforestazione e ricrescita dei boschi
La deforestazione di un Paese segue un andamento a «U» in quattro fasi: 1) ampia copertura forestale; 2) diminuzione rapida; 3) diminuzione sempre più lenta; 4) infine, man mano che procede lo sviluppo economico la copertura forestale aumenta. «La maggior parte dei Paesi a reddito medio-basso si trova nelle aree tropicali e subtropicali; così il 95 per cento dei fenomeni di deforestazione a livello globale avviene lì» dice Ritchie.
«Siccome le foreste tropicali ospitano alcuni degli ecosistemi con maggiore biodiversità, è la deforestazione che dobbiamo fermare. Dare sostegno agli Stati in condizioni economicamente più svantaggiate, affinché saltino a pié pari la fase 2 e 3, deve essere l’obiettivo primario. Abbiamo i mezzi per farlo: tecnologie per rendere l’agricoltura redditizia, istituzioni in grado di far rispettare le politiche e le normative in materia, satelliti che si occupano di monitorare l’abbattimento della vegetazione».
Conservare la biodiversità
Che stiamo distruggendo la biodiversità è innegabile. «Ma non significa che non ci sia abbastanza tempo per cercare di invertire la rotta» riflette Betti. «Dobbiamo proteggere la nostra nicchia ecologica. Non è la natura in sé a essere in pericolo. La vita sul pianeta è sopravvissuta a fasi ben più difficili di questa. Siamo noi che staremo peggio se non agiamo subito. Come? Per esempio, ponendo fine alla deforestazione, aumentando la resa dei raccolti, interrompendo la dispersione di plastica negli oceani. Se gli ecosistemi del mondo torneranno a fiorire di nuovo, staremo bene anche noi. Più ritardiamo, maggiore sarà il rischio di perdere altre specie, per sempre».
Strategie per il futuro
Altro che pessimismo. Secondo Ritchie, la prossima generazione potrà essere la prima «sostenibile», quella in grado di soddisfare le esigenze di tutti lasciando un ambiente migliore di come l’ha trovato. Applicherà un’imposta sul carbonio a tutti i beni che si acquistano, calcolata sulla base delle quantità di gas serra emessi per la loro produzione: ciò che è prodotto con carbone, petrolio e gas, per esempio, costerà di più. Questo inciderà sulle scelte dei consumatori e spingerà verso scelte a bassa emissione. E nello stesso tempo il suo gettito potrà essere usato per aiutare le famiglie che non riescono a far fronte agli aumenti.
La necessità di affrontare il cambiamento climatico sta già offrendo nuove opportunità lavorative, dal ripristino della biodiversità a quello di foreste e zone umide, fino all’assorbimento della CO2 o al recupero delle plastiche in mare. Non è una necessità dettata dall’amore incondizionato per la natura, ma dal fatto che il recupero degli ambienti naturali ci aiuta nella mitigazione. I grandi fondi di investimento stanno spostando le loro attività dai combustibili fossili alle energie rinnovabili e alla sostenibilità ambientale. Costruire benessere facendo anche del bene al pianeta è una possibilità concreta. Al pessimismo riguardo al futuro oggi si può contrapporre l’ottimismo. n © riproduzione riservata