I raccolti perduti per mancanza di manodopera, la ristorazione in ginocchio, gli incentivi dopo il lockdown pensati da chi ignora la realtà produttiva. E a fronte di tutto questo, la capacità di reazione di coltivatori e chef. Parla un protagonista del settore food, che propone una ricetta per il rilancio. Partendo dal patrimonio di eccellenze non sfruttato del nostro Paese.
Scordamaglia, come raccontiamo il mondo dell’alimentazione dopo il Covid?
In fondo per spiegare tutto basterebbe una sola bottiglia.
Una bottiglia?
Immagini una serata-tipo come tante di quelle che capitavano prima della Pandemia: eri stato a cena in una bella trattoria, l’oste ti aveva consigliato un buon vino, ad esempio un Amarone. Tornavi a casa felice.
Esatto.
Ti eri segnato il nome del vino. Il giorno dopo te lo ricompravi. Questo congegno funzionava benissimo, ed era uno dei motori del mercato italiano.
Lo spieghi.
Perché tu non solo consumavi il vino di quella sera, ma poi lo andavi a cercare dopo, e lo facevi anche conoscere. Zero pubblicità, tutto tam tam.
Una sorta di effetto-vetrina?
Esatto: il nostro vino, i nostri formaggi, il nostro olio, il cibo di qualità, insomma, avevano nella ristorazione diffusa un doppio volano: da un lato la vendita diretta – l’oste che ti consiglia – dall’altro uno indiretto altrettanto importante: scopri e acquisti.
E adesso?
Ecco il problema. La pandemia ha colpito al cuore questo canale: l’osteria di media dimensione è la più danneggiata, fatica a riaprire. E quella stessa bottiglia di Amarone, oggi, puoi trovarla in vendita in un discount, come è capitata a me, a 9 euro e 90.
E non è una buona opportunità per il consumatore?
No, perché non è uno sconto sano, né duraturo! È una liquidazione sottocosto. Le faccio un altro esempio: le angurie a un centesimo al chilo. Follia!
Troppo poco, intende?
Esatto. Calcoli che 10 chili costano 10 centesimi, meno del costo dell’acqua necessaria a produrle. Cioè nulla. Sa cosa significa questo?
Me lo spieghi lei.
Che una intera filiera esplode: si svende un raccolto, o un’annata di vino, senza rientrare dei costi, e poi non ci sono le risorse per coprire il raccolto successivo.
Quello che sta accadendo con la prossima vendemmia?
In alcuni casi sì. Per di più si sta creando un problema enorme, perché la regolarizzazione degli immigrati che facevano la raccolta in agricoltura non ha portato i risultati previsti.
E che cosa succede?
Un altro cortocircuito terribile: il virus rallenta l’arrivo dei raccoglitori dai Paesi di residenza, li fa mancare, e rallenta anche le pratiche burocratiche per assumere quei lavoratori.
E da noi?
Stiamo correndo, per la seconda volta, dopo la primavera, il rischio di buttare via i nostri raccolti.
C’era una soluzione?
C’era e c’è: un voucher speciale, post epidemia, per poter assumere e regolarizzare rapidamente senza burocrazia anche chi arriva da altri settori in difficoltà occupazionale. Speriamo che il governo ci ripensi. Torniamo ora alla bottiglia di vino da cui siamo partiti?
Prego.
Abbiamo la bottiglia della nostra cena, quella dell’anno scorso, in svendita sottocosto. E la nuova bottiglia che ci deve arrivare, quella del prossimo anno, che potrebbe non prodursi più. Per giunta il ristorante dove si vendevano entrambe è chiuso perché non ha riaperto.
Uno scenario terribile.
Ci sono milioni di lavoratori appesi a quella bottiglia di vino. Come al nostro olio, ai nostri formaggi tipici, alle nostre carni. Ecco la tempesta perfetta da evitare a tutti i costi.
Come?
Vede, il punto è questo: abbiamo parlato per tanti anni dell’importanza sociale della classe media e della piccola impresa nella società italiana.
Esatto.
Il ceto medio impoverito era una delle cause della crisi.
Adesso però c’è un altro ceto medio a rischio, altrettanto importante.
Proprio così: scopriamo che il lockdown e la paura del post-Covid hanno colpito i consumi, e soprattutto una categoria: la «middle class» della ristorazione, il grande polmone del made in Italy.
Sta dicendo che bisogna impedire a tutti i costi che quei locali chiudano?
«Salvare il soldato Ryan», oggi, significa salvare le osterie, i ristoranti a conduzione familiare, i piccoli locali tipici.
E se non ci si riesce?
Non sia mai. Sparirebbe una fetta enorme di Pil italiano.
Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia, amministratore delegato di Inalca-Cremonini (il colosso della carne), è uno dei grandi registi del mondo del food italiano, l’uomo che ha celebrato il matrimonio tra i produttori e l’industria alimentare. In questa intervista spiega perché l’unico modo per uscire dalla crisi è difendere insieme il made in Italy e «il grande popolo delle osterie».
Mi piacerebbe avere un po’ di dati per capire.
È semplice. L’industria del cibo è stata in questi anni la nostra gallina dalle uova d’oro.
Prima della pandemia, intende?
Questo mercato stava esplodendo.
Consumi interni o esterni?
I traini degli ultimi anni sono stati esportazione e ristoranti. Pensi che su 250 miliardi di consumi interni 84 miliardi – il 34 per cento! – erano veicolati dalla ristorazione.
E l’export?
Immagini che nel 2019 – prima del virus – eravamo al più 5 per cento e nei primi tre mesi del 2020 eravamo addirittura al più 9 per cento. Expo è stato un evento incredibile che ci ha trainato per anni e che continua a trainarci avendo mostrato al mondo il nostro modello agroalimentare di efficienza sostenibile.
Adesso c’è un segnale di recupero.
La ripresa riguarda l’export agroalimentare. Ma siamo tre/quattro punti sotto lo scorso anno. Germania e Stati Uniti sono i primi mercati dove esportiamo. Nel mondo del cibo, in questi anni, le geopolitica si è fusa in modo inscindibile con il mercato.
Un esempio?
Era bastato un annuncio di Donald Trump sui dazi a far crollare i prezzi delle nostre eccellenze esportate verso gli Stati Uniti. Poi Il presidente Usa ha chiarito che il vino l’olio e la pasta italiani sono stati esentati: queste notizie fanno salire e scendere come una borsa il nostro mercato.
Che senso ha la politica dei dazi?
Dal punto di vista alimentare? Per gli Stati Uniti uno solo. Difendere la produzione americana soprattutto di falsi: il cosiddetto «Italian sounding».
Perché il vino è uno dei prodotti più colpiti dal lockdown?
Per il meccanismo che le ho detto, in Italia, e per quello che abbiamo appena visto, fuori.
Perché la ristorazione di qualità resiste meglio?
È chiaro che in una situazione di sofferenza chi ha dimensioni maggiori ha più risorse per combattere. Questo riguarda sia le grandi catene sia gli chef.
Mi faccia un esempio.
Quello dello chef Davide Oldani, che ha affermato di aver riaperto, pagato i fornitori in tempo reale per finanziarli nella crisi e assunto nuovi dipendenti.
Gli chef stellati si sono difesi.
Non tutti, ovviamente. E in ogni caso la stragrande maggioranza dei circa 150 mila ristoranti italiani sono realtà medio-piccole che stanno ancora lottando per la sopravvivenza.
E le grandi catene?
Hanno avuto qualche arma in più: gli spazi e l’organizzazione
Per fare cosa?
Per esempio il distanziamento, perdendo qualcuno in meno dei loro coperti. E poi c’è il genio italiano.
Cioè?
Ha visto cosa ci siamo inventati? La riscoperta del drive in. Non ha idea di quante ne escogitino i ristoratori. E non solo le grandi catene che avevano già gli spazi e le infrastrutture per farlo. Penso a chi con due parcheggi ha realizzato il «drive park». Ovvero, ordini, vai in macchina e non entri neanche nel locale.
Esatto: parcheggi e vieni servito.
I ristoratori hanno creato un nuovo modo di consumare cibo pur di continuare a svolgere il loro straordinario lavoro.
Il drive park ha prodotto volumi?
Incredibili. Tra drive in e drive park anche il 15 per cento delle vendite in più.
Non è uno scherzo.
Affatto: anche per questo nuovo canale, però, ti serve tecnologia: i tempi perfetti, la possibilità di sviluppare una app per ottimizzarli. Il cliente non deve aspettare un minuto.
Però c’è un doppio ritorno.
Abbatti dei costi perché tagli coperti e servizi al tavolo. Salti il problema del distanziamento.
Perché la classe media della ristorazione soffre così tanto?
Sono stati colpiti i due pilastri su cui si reggeva: lo smart working ha distrutto le pause pranzo. E il distanziamento ha dimezzato le entrate, ma non i costi fissi.
Quindi i ristoratori dovrebbero davvero cambiare lavoro, come ha detto Laura Castelli?
Una battuta infelice. Spero, anzi credo, che la viceministra si sia ravveduta.
Ma è sicuro che i ristoratori siano fuori pericolo?
Se vengono aiutati come si deve e subito, nessuno ha bisogno di cambiare mestiere. Il consumatore continuerà ad aver voglia dell’esperienza sociale e umana della trattoria, del ristorante tipico famoso per un piatto e anche delle catene che servono qualità.
Esempio?
Se lei va in certe osterie sperdute trova le file con le guide in mano.
Cosa serve per impedire il collasso del settore?
Ossigeno che consiste nella liquidità e nella sospensione di tasse e contributi. Bisogna difendere i medio-piccoli che hanno ancora mesi di inferno davanti a loro.
Dicono: non si può fare assistenza.
Ridicolo: abbiamo dato per trent’anni gli incentivi alla Fiat senza che nessuno fiatasse. Lascio valutare gli effetti.
Cosa intende?
Il settore «automotive» ha succhiato risorse vitali al Paese e adesso produce in Italia un quarto del numero delle vetture di alcuni anni fa e delocalizza le proprie sedi. Vogliamo distribuire nuovi incentivi per far vendere auto a tedeschi coreani e giapponesi, e abbandonare la nostra principale industria nazionale?
Che non è l’auto, deduco.
Ma è ovvio! Dobbiamo spostare investimenti dall’automotive all’«agromotive». Ci pensi: l’alimentazione è l’unica industria nazionale che non può delocalizzare.
Qual è la sua storia?
Sono nato a Chiaravalle, in Calabria.
Che cosa facevano i suoi?
Mio padre era dirigente veterinario di una Asl. Mia madre insegnava alle elementari.
E che cosa voleva fare da piccolo?
Il veterinario. E inizio da lì: mi iscrivo al liceo scientifico. Mi laureo all’università di Perugia, e là faccio il dottorato in veterinaria. Poi un master in economia a Modena.
E cosa la porta nel magico mondo del food?
(Ride) Il caso. E poi un incontro folgorante.
Quando e con chi?
Lavoravo già in facoltà: ma grazie a una visita in azienda, nel 1994, incrociai un visionario: Luigi Cremonini.
Di cosa parlaste quel giorno?
Di tutto, e rimasi impressionato. Sembrava una normale chiacchierata: lui era partito dai bovini, poi passò all’alimentazione nel terzo millennio – ovvero questo – e mi disse: «La terra e il cibo saranno il petrolio di domani e diventeranno sempre più centrali e strategici».
Aveva ragione. E come si chiuse la discussione?
In modo inatteso. Mi guardò e mi disse: «Senta, molli tutto e venga a lavorare da noi». Lo feci. E in un giorno passai da voler curare gli animali a voler sfamare il mondo.
Ah ah ah.
Avevo 29 anni: dopo due mesi ero vicedirettore di Assocarni. Nel 2006, a 41 anni diventavo amministratore delegato di Inalca-Cremonini. Nel 2014, presidente di Federalimentare.
Detto così sembra un film americano.
Devo tutto a Cremonini e al suo straordinario gruppo. Ho imparato tutto da lui. Sono potuto crescere grazie a questo entusiasmo e a questa fiducia.
Nel 2018 lei ha lasciato Confindustria ed è passato dall’altra parte della barricata, per costituire Filiera Italia con Coldiretti. Tutti sono rimasti stupiti.
Vero. Ma il fatto è che quella barricata non doveva esistere. Il futuro di cui parlo deve superare la conflittualità tra industria e produzione.
Perché?
Il mondo sta diventando quello che Luigi Cremonini aveva previsto. Expo è stata una folgorazione: abbiamo scoperto lì quanto è grande la forza del food italiano e la sua regola più importante.
Quale?
Che gli interessi di produttori e industria sono gli stessi. Ogni metro che conquistava uno, era un metro che conquistava l’altro. E viceversa. È così anche oggi, anche in questa crisi.
E cosa vi unisce?
La ricerca della qualità e della originalità, la difesa dalle imitazioni, l’idea comune che il modo in cui si produrrà il cibo cambierà il pianeta, gli stili di vita, i costumi.
Molto suggestivo. Ma va dimostrato.
Conosce la più bella battuta di Einstein? «Non so con quali armi si combatterà la terza Guerra Mondiale. Ma so che la quarta si combatterà con la clava».
Una frase che spiegava perfettamente la guerra fredda.
Ecco, io le posso dire che la prossima guerra – quella di un pianeta che ha sempre più bocche da sfamare – sarà combattuta con la capacità di coltivare una cosa preziosissima come la terra.
E chi vincerà?
Chi riuscirà a produrre di più con minori risorse e minore impatto ambientale.
Quando inizia questa guerra?
Guardatevi intorno. Si sta combattendo già. È noto che in Africa i cinesi hanno inventato un nuovo colonialismo agricolo.
Non conquistano gli Stati ma i campi.
E li devastano. Li usano in modo intensivo, distruggono il suolo e se ne vanno.
Quindi sono i cattivi. E noi italiani in questa guerra da che parte stiamo?
(Ride). Noi siamo i buoni.
Magari. Mi convinca.
Semplice: noi per l’esiguità dei nostri appezzamenti abbiamo il miglior «know how» al mondo per evitare il consumo del suolo.
Perché?
Perché se l’agricoltura è il nuovo petrolio del mondo – e io ne sono convinto! – la pianura padana è una cosa che sta a metà fra il Texas come produzione, e la Silicon Valley come innovazione. Il nostro Sud è un enorme serbatoio di biodiversità.
In che modo?
Conosce la «georeferenziazione»? L’uso intelligente di acqua, sementi, fertilizzanti eccetera. Invece di dare una cura da cavallo usandoli in maniera indifferenziata su tutto un campo, si fa una diagnosi grazie anche ai satelliti, metro per metro, e si utilizza soltanto quel che serve. E si evita il consumo superfluo. Dopo questo ciclo produttivo il campo invece che meno fertile, lo diventa di più.
Fantascienza?
Macché. È quello che sta facendo un’azienda come Bonifiche Ferraresi in Italia. Ma anche in Ghana e Tunisia. Cioè una collaborazione italiana pubblico privata che, grazie a Dio, funziona. Parliamo di qualunque cosa, ma mai delle vere eccellenze di questo Paese.
Ci sono altri «cattivi» in questa guerra dell’alimentazione.
Io non ho dubbi. Oggi il vero nemico è chi vuole sostituire la chimica all’alimentazione.
Mi faccia un nome.
Ne vuole uno importante? Il commissario europeo Frans Timmermans quando dice: «Arriverà un giorno in cui per produrre latte e carne non avremo bisogno delle stalle».
Intende dire: in cui tutto si potrà ottenere in laboratorio.
Orrore: spero che quel giorno non arrivi mai anche perché vorrebbe dire togliere a miliardi di agricoltori il compito di sfamare il mondo, concentrandolo nelle mani di poche multinazionali.
Chiudiamo con un altro esempio.
Abbiamo iniziato con l’Amarone e chiudiamo con la storia del culatello. Il culatello è stagionato praticamente senza sale, e questo ha interessato l’industria di diversi altri Paesi, affascinati da un prodotto dietetico e di straordinaria qualità senza concorrenti.
Hanno provato a riprodurlo?
Sono venuti in Emilia Romagna da tutto il mondo per copiarlo.
Risultato?
Non hanno cavato un ragno dal buco!
Cosa gli mancava per ottenere un «culatello sounding»?
Un unico ingrediente, ma non riproducibile: quei 15 chilometri di terra e di aria del Po dove si realizzano condizioni di umidità e ventilazione unica al mondo. Se non vuoi usare il sale, devi stagionarlo lì.
Non si può riprodurre in laboratorio?
Non ci sono riusciti. Ed è così per il vino, per l’olio, per i formaggi italiani. Noi siamo il regno della biodiversità e della cultura gastronomica.
Il Covid minerà tutto questo?
No, anzi sarà una nuova ripartenza ma bisognerà impegnarsi perché accada.
Perché?
Il futuro dell’Italia è la produzione di qualità. Il futuro del pianeta è produrre in maniera sostenibile. Chi riesce in questa impresa diventa padrone del mondo.