Nella settimana di Natale 1973 usciva un’opera che sconvolse il mondo. Aleksandr Solženicyn riuscì a far arrivare in Occidente il suo saggio-memoir sui campi di internamento e di lavoro sovietici. Un racconto sconvolgente sulla violenza del regime staliniano per annullare il pensiero dei dissidenti come l’esistenza delle persone comuni.
Che «nessuna tragedia del passato potesse essere paragonata al comunismo sovietico» e che «nessun popolo avesse mai dovuto affrontare tanti dolori per colpa dei suoi capi», Aleksandr Solženicyn lo voleva dire – per prima – ai russi. Dovette rassegnarsi all’idea che il manoscritto venisse trafugato – clandestinamente – a Parigi perché i servizi segreti del Kgb avevano dato corpo a una caccia implacabile per individuare dove stava nascosto l’originale del testo. Fra le 22 persone arrestate (che, peraltro, non erano al corrente di nulla) Elizaveta Voromjanskaja non resistette alle pressioni del giudice e lo consegnò. La collaborazione con quella giustizia le fruttò la libertà ma non accomodò la sua coscienza. Nella stanzetta di 9 metri quadrati dove abitava, si allacciò un cappio alla gola e si lasciò soffocare. Fu a quel punto che Solženicyn accettò l’idea che il suo lavoro fosse pubblicato all’estero. Prudentemente, ne aveva preparata un’altra copia e – diffidenza maturata in troppi anni di segregazione – non l’aveva detto a nessuno, individuando un altro nascondiglio.
L’editrice francese Ymca Press impegnò l’intera redazione per tradurre le pagine dell’autore russo, comporle e mandarle in stampa a tempo di record. Nella settimana di Natale del 1973, Archipelag Gulag arrivò nelle librerie per la vendita. Subito dopo, Mondadori acquisì i diritti e (aprile 1974) lo pubblicò in Italia, mutuandone anche il titolo con «Archipelag» che diventò Arcipelago (il termine «gulag» è un acronimo che sta per «Amministrazione dei campi e dei luoghi di detenzione»). Capitoli sconvolgenti che misero in crisi coscienze onestamente comuniste e aggiunsero legna al fuoco di coloro che al paradiso di Stalin non avevano mai creduto. L’autore raccontò nel dettaglio com’era facile trovarsi sepolti in un carcere sovietico e com’era impossibile proteggersi da accuse così ideologiche da risultare evanescenti. Non si trattava di difendersi da reati o scusarsi per comportamenti magari inopportuni. Il regime «rosso» pretendeva di entrare nella testa dei cittadini e imprigionarne i pensieri. Niente d’inventato. I capitoli dettero conto delle storie di 227 prigionieri ognuno dei quali rappresentò il minimo tassello di un immenso puzzle che prese forma nelle segrete della società sovietica. E, tuttavia, altro e peggio venne custodito fra quei muri foderati dall’indifferenza se l’autore, in premessa, si sentì in dovere di chiedere scusa «se non aveva visto tutto, se non poteva ricordarsi di tutto e se non tutto aveva intuito». «In fondo a una coda di 350 persone / te ne stai davanti alla prigione di Kreskij / e le tue lacrime / bucano il ghiaccio di Capodanno».
Nel caso di Solženicyn, la censura (19 febbraio 1945) intercettò un messaggio che aveva spedito a Nikolaj Vitkevic. Erano entrambi ufficiali nei reparti di artiglieria. L’uno prestava servizio nella regione della Prussia orientale e l’altro combatteva in Ucraina. In una frase si accennava a un signore con le mani grosse al quale era meglio non prestare dei libri da leggere perché, sfogliando le pagine, le avrebbe macchiate con ditate di unto. Ritennero che quell’ironia fosse riferita a Stalin: lo condannarono a otto anni di carcere e, per buon peso, ne aggiunsero altri tre di confino. «È stata una stagione» commentò anni dopo «che non mi suscita nessun sentimento vergognoso. Sono arrivato, persino, ad amare quell’universo deformato e distorto». La giustizia sovietica s’ispirava a modelli medievali. Per i processi alle streghe, l’autentica prova di colpevolezza – forse l’unica – consisteva nella confessione. I giudici, più che cercare testimonianze di qualche valore o sviluppare indagini ambientali, s’impegnavano in un lavoro capillare perché le accuse venissero certificate dall’interessato. «L’ingenuo medioevo» la riflessione di Solženicyn «per estorcere un’ammissione di colpa, ricorreva a funi, ruote, fuoco, trebbia di ferro e altri mezzi anche abbastanza pittoreschi. L’Unione sovietica impiegò strumenti più raffinati: dare cibo salato senza acqua da bere, interrogare con un altoparlante appoggiato alle orecchie, mettere in funzione pompe di motori per riempire le celle d’aria ora gelida, ora fetida».
Più che sotto tensione fisica, ai detenuti veniva provocata un’ansia psicologica. Che cominciava nella prigione dove «non c’era nemmeno un pezzo di pavimento per ciascuno». A Chisinau, attuale Moldavia, in una stanza di 15 metri quadrati stavano 18 persone. A Lugansk, odierna Ucraina, nella metà dello spazio, ne avevano stipati 15. E a Butyrka, in un camerone per 25, ne erano stati ammucchiati 140. «Lo chiamavano canile» parola di Solženicyn, «non c’erano finestre e il calore (oltre i 40 gradi) obbligava a mettersi in mutande. Uno sull’altro, sempre in piedi, con la difficoltà a muovere un braccio per grattarsi dove prudeva. Più che uno accanto all’altro, si trovavano uno contro l’altro: sudandosi addosso e mescolando gli umori che provocavano reciproci eczemi. Nella stessa gavetta, mangiavano in quattro». Gli interrogatori che servivano per «mettere al tappeto» quei poveracci avvenivano di notte perché – sembra – in quelle ore, il detenuto risultava più fragile e, quindi «maneggevole». Si presentavano al giudice malnutriti e senza riposo, con gli occhi in fiamme, la gola di cemento e con un turbine dei pensieri che sfondavano il cervello. Non c’era scampo. Un intero apparato si abbatteva sulla volontà di un singolo che poteva contare soltanto sulle sue deboli forze di resistenza. E non contavano né l’origine proletaria né qualche merito rivoluzionario. Anzi l’amicizia diventava colpa: ogni bolscevico trovò il modo di farsi boia di un altro bolscevico.
Gli organi inquirenti si sforzavano di oscurargli il futuro, deformando il presente. E la minaccia di coinvolgere nell’inchiesta i familiari più prossimi finiva per trasformarsi nello stimolo più persuasivo per confessare anche l’inconfessabile. Con il risultato – non preventivato – che, una volta indossati i panni del colpevole, le mogli e i figli di un «corrotto morale» (per come riconosciuto dalla giustizia) avevano anche da vergognarsi, con l’obbligo di riscattarsi da quel parente indegno. La moglie di Solženicyn – Natalja Resetovskaja – non si sa con quanta convinzione, costruì un finto sepolcro del marito nel giardino di casa. Cosa poteva fare per dimostrare che ne aveva «preso le distanze» al punto da considerarlo morto? E che, di quel suo uomo, rinnegava persino la memoria di un tiepido passato? Quando glielo fecero sapere Solženicyn commentò: «Ho dovuto studiare anche la scienza degli addii». E, melanconicamente: «Cresce l’erba sulla tomba della mia gioventù».
Raro che si utilizzassero metodi fisicamente violenti anche se Nicolai Aleksandrov, dovendo camminare da un lato, per via della colonna vertebrale che gli era stata spezzata, poteva rappresentare una testimonianza efficace di come si picchiava nella prigione di Suchanovka. Il direttore Viktor Semerovic Abukamov usava un manganello di gomma che faceva danni a volte irreparabili, senza lasciare segni visibili. Spesso, si faceva aiutare dal «vice» Michail Dimitrievic Rjumin che aveva il braccio persino più robusto. Meglio confessare presto. I denti, in qualche modo, potevano rimetterli ma altre conseguenze fisiche restavano senza rimedio. Con la sentenza che chiudeva la prima fase del processo, ai detenuti si aprivano le porte dei campi di prigionia. Ognuno di questi complessi sembrava un’isola tanto era autonomo dal resto del mondo. Insieme – per davvero – davano l’impressione di formare un arcipelago. Solženicyn fu destinato nel campo in Mordovia. Le guardie erano arcigne e rifiutavano lo sguardo dei detenuti. Nessuna conversazione che paresse umana. Quando davano voce alle parole era per abbaiare ordini da eseguire con solerzia e sempre a richiamare il regolamento, cominciando dal tenere sempre le mani intrecciate dietro la schiena.
Sveglia alle 6 con l’inno sovietico a tutto volume, una «sbobba» scadente e il beneficio di un minuscolo pezzetto di carne – il primo gennaio – che doveva bastare per l’intero anno. Il bagno ogni due settimane. Nemmeno «uno specchio per vederti decadere». Una lisca di pesce per ricavarci un ago da cucire e i capelli da trasformare in filo. Impararono a ricavare paia di scarpe con la corteccia d’albero. La sera quegli «insetti» – zemcy – che il regime sovietico voleva schiacciare trovavano il modo di recuperare un barlume di umanità. Timofeev-Ressovskij raccontò dell’Italia, della Danimarca e della Svezia. Gli emigrati descrissero casa loro: i Balcani, soprattutto, ma anche la Francia. E ascoltarono una «lezione» su Le Corbusier e una sulla vita delle api. Kosja Kiula, invece, recitava poesie che lui stesso aveva composto. Non c’era carta e non si poteva scrivere. Occorreva mandare tutto a memoria. E lui, con voce rotta d’emozione, presentava ai detenuti «mia moglie», «mio figlio», «la mia famiglia». Il pubblico non badava se il tono era sillabico e se le parole concordavano per assonanza o per rima piena. Quei versi erano il sangue del cuore di ciascuno. In quelle suggestioni poetiche, ognuno riconosceva sé stesso. Per questo piangevano tutti.