La gigantesca battaglia combattuta in Normandia dal 6 giugno 1944, vista dalla parte dei tedeschi. Tra doppi giochi di spie, errori e una ferocia della guerra che, al di là dell’epica, riguarda anche i vincitori.
La battaglia di Normandia – 6 giugno 1944 – i tedeschi, prima che sulle spiagge di Carentin e di Caen, la persero nelle trame del controspionaggio. Furono ingannati dall’Intelligence inglese che, in operazioni sofisticate di depistaggio riuscirono a confondere lo Stato maggiore di Berlino, convincendolo che lo sbarco sarebbe avvenuto più a nord, sul litorale di Calais. Nella costruzione di queste fake news fu fondamentale l’opera di un catalano – Juan Pujol García – il quale riuscì a farsi assumere dal servizio informazioni della Germania – l’Abwehr – ma per fare il doppio gioco. A Londra lo conobbero come «Garbo» – proprio come Greta Garbo – per la sua versatilità a muoversi come un attore a teatro. Fece circolare centina di dispacci cifrati e un migliaio di messaggi radio come se fossero comunicazioni fra inglesi e americani in modo che fossero intercettati dagli agenti tedeschi. In larga misura, tutto questo lavoro si svolse a Lisbona che, capitale di un Paese non belligerante, era diventato il crocevia di spioni di ogni genere (e truffatori di qualunque razza).
S’incontravano gli idealisti che avevano scelto di combattere scoprendo le intenzioni del nemico e gli imbroglioni (qualche volta geniali) che se ne approfittavano; le spie vere e quelle finte; i doppio e triplo giochisti; gli appassionati dell’azzardo al tavolo del poker e gli eterni innamorati delle donnine che, in quel contesto, si aggiungevano o confondevano le trame delle «intelligence». Insomma: un bazar di personaggi e di umori dove la scaltrezza rappresentava un valore aggiunto anche se doveva fare i conti con il pericolo di un sicario dietro l’angolo assoldato per evitare che un sospetto diventasse un problema. I tedeschi caddero nella trappola con il risultato che il maresciallo Gerd von Rundstedt, comandante della zona Ovest «a seguito di precise e documentate informazioni», ordinò «lo stato di allerta per la XV armata di stanza in Belgio e lo spostamento nel nord della Francia delle divisioni di riserva». L’una e le altre rimasero ferme anche quando lo sbarco cominciò sulla costa normanna. Erano così convinti dell’attacco a Calais che, contro ogni logica e violando tutti i consigli del buon senso, ritennero che si trattasse di un diversivo per mascherare l’operazione principale, senza dubbio imminente sul quell’altro fronte. Perciò, le Panzerdivisionen del barone Leo Geyr e i rincalzi del generale Heinz Guderian restarono al loro posto a controllare il canale della Manica.
In realtà, con una guerra che si stava mettendo male, ai nazisti stavano venendo meno le certezze degli inizi del conflitto. I russi, dopo aver fermato l’avanzata tedesca, erano in grado di mettere in crisi il fronte orientale. Gli americani erano sbarcati in Italia e potevano entrare a Roma. E, con forze quantitativamente ingenti, mostravano di voler aggredire la costa occidentale. Anche gli ufficiali superiori si stavano convincendo che era meglio fermarsi per trattare una resa da posizioni di ancora relativa forza. Gli ostacoli ad avviare una trattativa venivano proprio da Adolf Hitler il quale, come estraniato dalla realtà, seguitava a vaneggiare della potenza di nuove armi, destinate ad assicurare una vittoria che stava solo nella sua testa. Forse, occorreva sbarazzarsi proprio del Führer. La congiura prese corpo con l’attentato (fallito) del 20 luglio 1944 a Rastenburg ma ebbe come ispiratori proprio i comandanti delle piazze militari di Francia e Belgio: a cominciare dal governatore di Parigi Carl-Heinrich von Stülpnagel e quello di stanza a Bruxelles Alexander von Falkenhausen. Come se il nemico da cui guardarsi fosse a Berlino e non quello che progettava l’invasione dal mare.
La catena di comando si era fatta farraginosa. La responsabilità di difendere il Vallo Atlantico – che andava dalla Danimarca ai Pirenei – era stata affidata a Erwin Rommel il quale, però, a dispetto del carico di medaglie e del prestigio conquistato combattendo due guerre mondiali, non era in grado di disporre nemmeno del generale Friedrich Dolmann che, sulla carta, avrebbe dovuto essere il suo vice. Doveva riferire direttamente a Hitler che si sarebbe preoccupato – lui – di diramare poi gli ordini ai rispettivi reparti. Perciò, proprio per presentare i suoi rapporti al Führer, Rommel lasciò il comando, prese il treno e viaggiò verso Berlino. Approfittò della trasferta per fermarsi qualche ora a casa e festeggiare la moglie Lucie che tagliava il traguardo dei 50 anni. In quelle stesse ore, i generali alleati – Dwight D. Eisenhower e Bernard Law Montgomery – stavano mettendo a punto gli ultimi dettagli. Disponevano anche di una relazione di geologi che, su campioni di sabbia prelevati sulle coste della Normandia, avevano stimato la capacità di resistenza della spiaggia al peso dei carri armati. Poteva cominciare l’operazione da indicare – in codice – D-Day (che i francesi tradussero letteralmente Jour-J). La voce della radio clandestina, recitando i primi versi di una poesia di Paul Verlaine, diede l’annuncio che l’attacco era imminente. E con la seconda terzina assicurarono che lo sbarco era in corso. «I lunghi singulti dei violini» che «colpiscono il cuore di monotono languore» mescolarono la leggiadria dei componimenti letterari con il fragore della guerra.
Dietro le dune di sabbia della Normandia, pur bombardati dall’aviazione americana e in inferiorità numerica, i tedeschi ressero l’urto. Cinquanta mila soldati diedero del filo da torcere a contingenti di tre volte superiori. Percentuale che si registrò anche nel conteggio delle vittime: i tedeschi persero ottomila uomini mentre gli anglo-americani ne lasciarono sul campo 12 mila. La spiaggia, indicata sui mappali degli attaccanti come Omaha, venne corretta con «Bloody Omaha» per via delle pozze di sangue che segnarono la sabbia. I marines non riuscirono a sparare efficacemente perché i fucili dopo essere stati nell’acqua non funzionavano più. I comandanti avevano ordinato di proteggere la canna con un profilattico che non fu sufficiente a reggere le onde del mare. Del tutto annientati i paracadutisti che, investiti da raffiche di vento, furono trascinati nell’entroterra dove i nemici li aspettavano. Gli analisti «del poi» non ebbero difficoltà ad ammettere che una presenza più robusta di difensori sarebbe bastata per ributtare in mare i marines. Invece, i tedeschi abbandonarono il campo e gli americani, a costo di gravissime perdite, consolidarono la testa di ponte. La guerra nasconde sempre un «lato oscuro» che i vincitori – per pudore e per vergogna – faticano a riconoscere, preferendo celarlo nelle pieghe dei successi militari. Lo storico Antony Beevor non ha difficoltà a sostenere che lo sbarco in Normandia provocò massacri inutili e gratuiti. Del resto se, già il giorno dopo, su alcuni muri comparvero le scritte per invitare gli yankee a tornarsene a casa – «Usa go home» – significa che troppe cose non andarono per il verso giusto.
Forse per reazione alla frustrazione del combattimento, gli americani presero a mozzare le orecchie dei cadaveri tedeschi per conservarle come trofei. E «immediatamente dopo, le violenze si trasferirono sui francesi». Caen, il capoluogo del Calvados, l’acquavite di sidro di mela, venne rasa al suolo. Gli aerei bombardarono senza guardare se sotto ci fossero soldati o case civili. Le mitragliatrici spararono senza badare chi si trovasse davanti. Un grande numero dei 60 mila abitanti venne sepolto vivo tra le macerie. Chi riuscì a rifugiarsi nei cunicoli della città medievale restò là sotto per un mese per sfuggire alle pretese dei liberatori. «Hanno sventrato inutilmente la nostra città» commentarono a guerra finita, quando i tedeschi già non c’erano più. «Una marea di disperati vagò fra i cadaveri di quell’obitorio a cielo aperto e uno di loro non seppe cosa rispondere a un ufficiale canadese che domandò “dove poteva trovare un buon ristorante per il pranzo…”». I soldati saccheggiarono tutto quello che trovarono a portata di mano, uccisero chi difendeva la sua proprietà e assaltarono le donne senza riguardo per le bambine o per le vecchie. Cassino e dintorni già lo sapevano. Il romanzo di Alberto Moravia e il film Vittorio De Sica raccontarono la storia di una Ciociara. Già, una sola. Ma quegli abusi riguardarono migliaia di vittime.
Il «dopo sbarco» in Normandia documentato anche dallo storico William I. Hitchcock che, nel saggio The Bitter Road to Freedom, ha dato conto quanto sia stata amara la strada della libertà. Al punto che il generale americano William Morris Hoge dopo le epiche narrazioni sul D-Day – con le oltre 1.200 navi da guerra in arrivo, 156 mila soldati e oltre quattromila che toccarono terra – riconobbe che i suoi uomini «si comportarono persino peggio dei tedeschi». I quali tedeschi, che avevano cominciato una guerra di conquista, dovettero adattarsi (prima) a un conflitto di resistenza per combattere (poi) per la sopravvivenza.