Il 24 febbraio 1525, ci fu lo scontro finale tra la Francia di Francesco I e la Spagna di Carlo V. In campo venne impiegata pesantemente l’artiglieria e dopo questo eventi, a partire dall’Italia, Madrid è stata a lungo protagonista dell’età moderna.
Per essere una battaglia che nessuno si aspettava di combattere (perché nessuno l’aveva preparata) quella di Pavia, combattuta cinquecento anni fa, il 24 febbraio 1525, comportò conseguenze definitive per le guerre a venire e per gli equilibri politici dell’Europa. Segnò il tramonto della cavalleria pesante (che, fino ad allora, negli scontri in campo aperto, aveva rappresentato una forza determinante) destinata a essere sostituita da archibugi e polvere da sparo. E, nel nord Italia, arrivarono gli spagnoli. Forti di una leadership imposta al mondo occidentale, s’insediarono nel Ducato di Milano dove rimasero per un paio di secoli (fino agli accordi di Utrecht e Rastatt del 1713 e 1714).
Un passaggio cruciale della storia, dunque. La contesa fra Parigi e Madrid andava trascinandosi da decenni. L’aveva iniziata il re di Francia, Carlo VIII, nel 1494 e, fra momenti di relativa calma e impennate di lotte forsennate, aveva rappresentato il filo conduttore nella storia del primo Rinascimento. I due contendenti si giocavano il ruolo di primo della classe in Europa ma, con qualche avvedutezza evitarono che la disputa si risolvesse sui loro territori. Meglio combattere in Italia dove – con malaccorta previsione – i signorotti di allora si dimostrarono contenti d’accoglierli e in qualche caso addirittura, invocandoli.
Nei mesi a cavallo fra 1518 e 1519, i principi d’Europa dovettero scegliere a chi attribuire il governo del Sacro romano impero. Si trattava di una decisione scandita da mesi di discussioni, incontri, promesse. Il re di Francia Francesco I si candidò e, spendendo una fortuna per corrompere i Grandi Elettori, tentò di accaparrarsi il titolo. Il sovrano di Spagna, Carlo V, signore di un impero «sul quale non tramontava mai il sole», spese di più (o, forse, soltanto meglio) e vinse. L’esito determinò un riacutizzarsi dei contrasti – giusto da poco sopiti – rendendo inevitabile una recrudescenza della guerra. Francesco era un giovane spavaldo, assetato di gloria. Non accettava di essere secondo a nessuno ma, in questo caso, la sua irritazione non dipendeva soltanto dalla delusione per l’insuccesso rimediato. Era preoccupato – le cronache del tempo, forse esagerando, lo definirono «spaventato» – perché il suo regno pareva soffocato dai possedimenti di Carlo V che già governava Spagna e Fiandre con il nord Europa e, da quel momento aggiungeva gli Stati tedeschi che si allungavano per intero sul confine occidentale della Francia.
La guerra si dipanò fra alti a bassi, a favore ora dell’uno, ora dell’altro antagonista. I francesi riuscirono a occupare il ducato di Milano ma dovettero abbandonarlo e (aprile 1524) a Romagnano, furono sconfitti. Tornarono alla carica insidiando gli spagnoli e mettendo appunto sotto assedio Pavia: conquistarla avrebbe aperto la strada per irrompere nella Pianura padana. Francesco I godeva del vantaggio di un’artiglieria poderosa e incominciò a bombardare le mura della città presero a cedere. A difenderla c’era il generale Antonio de Leyva che, rendendosi conto di non poter rafforzare la fortificazione, si protesse da dietro facendo costruire un terrapieno a ridosso della cinta. Quando i francesi si lanciarono nella breccia aperta dalle esplosioni, si trovarono ostacolati da un baluardo di terra che non riuscirono a scavalcare. Per tre volte, ripeterono l’assalto ma dovettero ritirarsi, lasciando sul campo 800 morti. Impossibile ritentare per quella strada. L’artiglieria aveva consumato l’intera riserva di polvere da sparo. Per rifornirsi occorreva contrattare con il Duca di Ferrara, offrendogli sacchi d’oro e assicurazioni politiche altrettanto impegnative. Intanto, i comandanti accarezzarono l’idea che, forse, bastava aspettare e prendere Pavia per fame. Quanto potevano essere ricche le dispense degli assediati?
All’interno delle mura, più che delle scorte di farina, Antonio de Leyva aveva i suoi grattacapi perché non aveva i fondi per pagare i mercenari lanzichenecchi. Che, se non ottenevano il «soldo» pattuito, abbandonavano il campo per tornarsene a casa o, peggio, accettavano di arruolarsi nell’esercito nemico. Il primo stipendio venne assicurato requisendo i tesori delle chiese per trasformare oro e argento in lingotti da distribuire ai soldati di ventura. Ma, per il futuro, sarebbero mancate le risorse finanziarie. Per evitare conseguenze catastrofiche, occorreva anticipare il peggio con un’azione militare che consentisse di liberarsi dall’assedio. Altro che battaglia «pensata», nell’idea originaria, si trattò di un’iniziativa di corto respiro per alleggerire la pressione francese e guadagnare tempo.
Un troncone di esercito spagnolo avrebbe attaccato il castello di Mirabello dove ritenevano fosse alloggiato lo stato maggiore nemico. L’intelligence di allora era quella che era: ecco che le informazioni a disposizione dei comandanti si rivelarono – tutte – completamente sbagliate. Il quartier generale stava oltre il bosco di Porta Repentita.
Gli spagnoli si mossero alle quattro del mattino (del 24 febbraio 1525). La visibilità notturna era ancor più ridotta da una nebbia che galleggiava sopra gli sterrati. I soldati indossarono una casacca bianca sopra l’armatura per riconoscersi ed evitare di sbudellarsi a vicenda. Il primo scontro avvenne fra i tremila che attaccavano e i tremila che difendevano. I francesi ebbero la meglio e disordinarono i reparti spagnoli che, complice l’oscurità, persero orientamento e collegamenti. Il frastuono, per un verso, provocò l’uscita da Pavia delle truppe del comandante Leyva che si trovarono a cavallo fra il luogo dello scontro e altri reparti di soldati francesi che si mossero per correre in aiuto degli attaccati. Per altro, mise in allarme l’artiglieria di Parigi che già disponeva di «pezzi» orientati in quella direzione e aprì il fuoco contro gli spagnoli. L’attacco sembrava fallito.
Gli uomini di Madrid si dispersero nel bosco. Nella battaglia non ci fu niente di tattico né di ragionato, come detto. Si trattò di scontri corpo a corpo, senza rendersi conto quanto altre persone ci fossero nei paraggi e se fossero amici o nemici. Nei resoconti «del poi», gli imperiali si sforzarono d’inserire in una logica coerente gli strappi dei fanti e le galoppate al buio dei cavalleggeri. Stratagemmi patriottici per assicurare il marchio dell’eroismo a una contesa combattuta quasi alla cieca. Le sorti dello scontro vennero risolte da due iniziative.
Il marchese di Pescara Ferrante d’Avalos riuscì a ricompattare i reparti spagnoli che si stavano sbandando. Non aveva idea di cosa sarebbe successo, ma sapeva che avere un contingente di uomini in efficienza poteva risultare decisivo. Per altro verso, Francesco I prese a cavalcare con i suoi uomini attaccando gli spagnoli ma, nella foga del combattimento, s’infilò fra i nemici e la sua artiglieria che si trovò impossibilitata a sparare. Il primo assalto favorì i francesi al punto che il re, sul suo destriero, si lasciò andare a un’incauta anticipazione: «Adesso, per davvero, sono il duca di Milano». Credeva di aver vinto la battaglia. In realtà Francesco si comportò da prode ma, forse, proprio questo fu il suo vero difetto: per combattere da soldato trascurava di comportarsi da generale quando servivano ordini e disposizioni sul da farsi. Gli archibugieri spagnoli, finalmente riorganizzati, spararono prendendolo d’infilata. I francesi – manovra dopo manovra – da assedianti che erano si trovarono assediati con nemici che li incalzavano. Gli altri reparti di Carlo V li strinsero sugli altri lati e, senza bisogno di contatto fisico, falciarono i francesi a schioppettate. Tra le loro file i caduti furono diecimila. Francesco I riuscì ad arrivare nella vicina Binasco dove venne catturato e scortato – prigioniero – a Madrid. Ritrattando l’entusiasmo di qualche ora prima convenne che «tutto era perduto fuorché l’onore». Per una pace servirono quasi tre anni ma, ormai, restava poco da contrattare. Sulla storia dell’Italia, da allora e per due secoli, dettò legge la Spagna.