Angela Merkel soleva ripetere: ciò che va bene per la Germania, va bene per l’Europa… La sua delfina Ursula von der Leyen non è da meno. Si è accorta che con il suo Green Deal ha messo in ginocchio l’industria dell’Unione, ma soprattutto quella tedesca che sfornava auto, con il gas russo a pochi centesimi, per i cinesi felici di comprarle. Non è più così: la blasonata Audi vuole licenziare 7.500 operai nei prossimi quattro anni. La Volkswagen che chiude stabilimenti in Germania e viene declassata dall’agenzia di rating Moody’s è convinta però che il suo Eldorado sia in Asia, rafforza l’alleanza con Faw – uno dei colossi dei veicoli elettrici al di là della Grande muraglia – presenta 11 modelli in joint-venture con i cinesi nei prossimi due anni e vuole vendere quattro milioni di auto a Pechino.
Così in attesa che la riconversione delle supercar teutoniche in carri armati voluta dalla presidente della Commissione Ue si compia finanziata da tutti gli europei, (magari con un obolo prelevato forzatamente dai conti correnti), attraverso il ReArm Europe Berlino si porta avanti sulla Via della seta.
Non è un’imitazione di quello che «aprì» Giuseppe Conte, unico tra i governanti europei a siglare nel 2019 un accordo commerciale esclusivo con Pechino, da cui l’Italia ha dovuto fare due anni fa una frettolosa quanto costosa marcia indietro, ma è la nuova direzione che Bruxelles sta imboccando per farla pagare a quel «despota» di Donald Trump. È molto di più: è riprendere appunto un’idea della cancelliera Merkel per la creazione di un’area di libero scambio tra Unione (si legga Germania) e Dragone di fatto allargando il perimetro del mercato comune nel continente asiatico.
Si tratta di un progetto che aveva perseguito fortissimamente Romano Prodi – i suoi rapporti con la Repubblica popolare sono trentennali e gli hanno guadagnato fama imperitura dalle parti del Partito comunista cinese – quando presiedeva la Commissione europea. Non va dimenticato che nel 2000 fu lui ad aprire a Pechino la strada del Wto che poi verrà sancita dal presidente americano Bill Clinton nel 2001 facendo entrare il gigante dell’Asia nell’organizzazione mondiale del commercio senza alcun entusiasmo. Prodi disse allora ai cinesi: vi mettiamo a disposizione un immenso mercato. Era convinto, il Professore, che Pechino si sarebbe accontentata di essere la fabbrica del mondo per soddisfare i bisogni di quel miliardo e passa di persone da sfamare tutti i giorni. Dopo un quarto di secolo le cose stanno un po’ diversamente.
La superpotenza è la seconda economia del mondo, il primo partner commerciale dell’Ue e ci ha, di fatto, colonizzato. Lo scorso anno gli europei hanno venduto ai cinesi prodotti per 213 miliardi, loro ce ne hanno venduti per 518 miliardi di euro con un surplus a favore di questi ultimi di 305 miliardi.
La baronessa Von der Leyen, che pure ha imposto i dazi alle auto in arrivo dal Celeste impero per salvare quelle tedesche, si è rimangiata il discorso che pronunciò tre anni fa, indicando in Pechino un pericoloso concorrente e varando una strategia di «de-risking» che prevedeva di tenere sotto controllo gli investimenti europei oltre Grande muraglia e tutte le situazioni di dumping sleale sulle merci.
Oggi si appresta a festeggiare i 50 anni di relazioni tra Ue e Pechino che cadono in maggio – eguale anniversario vale per l’Italia – e ha invitato Xi Jinping che però resta a casa. Su suggerimento di Emmanuel Macron e di Olaf Scholz, ha aperto un canale di nuove relazioni affermando: «La Cina è tra le principali priorità dell’Ue».
Il nuovo presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, socialista, si è affrettato ad allacciare ottime relazioni con il presidente Xi. L’idea che alberga tra gli esponenti del Pse è che si debba abbandonare l’alleanza con gli Stati Uniti per volgersi a Oriente. Non a caso la propaganda di sinistra si sta esercitando a rappresentare il presidente Usa – eletto con 78 milioni di voti – come un autocrate e per il fatto che ha «riabilitato» Vladimir Putin per arrivare all’unico risultato possibile in Ucraina e cioè una tregua contrattata con il despota del Cremlino lo accomunano allo zar di tutte le Russie.
Così la Cina torna di moda a Berlino, a Bruxelles e anche a Roma sulla sponda dei «democratici». C’è di che preoccuparsi perché da Roma passa il Tevere, e come si sa Confucio – il regime comunista lo ha piegato a proprio uso e consumo presentandolo ai cinesi rurali come una sorta Dio incarnato – è noto per stare sulla sponda del fiume ad aspettare che passi il cadavere del nemico. In questo caso rappresentato dall’Occidente.
Del resto gli istituti Confucio – sono gli strumenti di diffusione e propaganda culturale finanziati dal regime comunista sospettati però di essere anche centrali di spionaggio «soft» – risultano ormai pervasivi. In Italia ce ne sono ben 11, tutti accreditati presso le nostre università e non è un caso che gli atenei abbiano dovuto fare accordi con i nostri servizi segreti per difendersi dagli sguardi molto indiscreti dei cinesi.
Xi Jinping ha una vera ossessione per lo spionaggio, per «rubare» i contenuti della ricerca occidentale. I metodi? Da TikTok, il social che sta in mano a tutti i ragazzi europei, ai sistemi di navigazione installati sulle auto, fino alla più potente centrale di «ascolto» che si celerebbe dietro la multinazionale delle telecomunicazioni Huawei. Che l’Unione preferisca avere a che fare con un dittatore come Xi, piuttosto che con Trump, presidente della più forte democrazia del mondo, è reso manifesto dal nuovo scandalo scoppiato all’Europarlamento: le tangenti che Huawei avrebbe pagato a una quarantina di deputati, tra cui diversi italiani, per ottenere una legislazione favorevole.
L’inchiesta è denominata Generation e fa il paio con il cosiddetto Qatargate (in cui sono coinvolte due europarlamentari del Pd Elisabetta Gualmini e Alessandra Moretti, per le quali è stata chiesta la sospensione dell’immunità parlamentare). Le indagini sono ordinate dalla procura di Bruxelles, su informazioni dei servizi segreti belgi: ha portato già all’arresto di una ventina di lobbisti ed è partita dalle attività di Valerio Ottati – un italo-belga, che da quattro anni è il direttore dell’ufficio di Huawei presso la Ue. Tuttavia sui grandi media non si parla della vicenda, evidentemente perché la baronessa Von der Leyen e la sua maggioranza Ursula (Ppe e Pse) non desiderano essere disturbati nell’«embrasson nous» con Pechino sponsorizzato da Macron. Ma anche da una gran parte del Pd italiano con in testa il «Confucio» dell’Ulivo Romano Prodi, collezionista di cattedre nelle università cinesi ultima delle quali offertagli dalla Fondazione Agnelli.
Il Professore che ha speciali legami di reciproca gratitudine con la famiglia torinese è attualmente titolare della Chair of italian culture di Pechino. La lista degli esponenti del Pd che tifano per la Cina è lunga. Da Massimo D’Alema che ha addirittura fondato la «Via della seta del vino», ad Alfredo D’Attorre, intimo di Elly Schlein che l’ha voluto nella segreteria del partito, che sponsorizza l’area di libero scambio Ue-Cina, a Stefano Graziano, autore di una precisa richiesta in direzione Pd: la Nato ci volta le spalle e allora guardiamo alla Cina.
Il più vicino ai cinesi – a parte Vinicio Peluffo, deputato Pd e presidente dell’associazione parlamentare Amici della Cina – è di sicuro Goffredo Bettini, l’uomo che fa da ponte tra il Nazareno e i Cinque stelle. Pare sia stato lui a insistere con Giuseppe Conte perché firmasse gli accordi della Via della seta. Dovevano portare all’Italia 20 miliardi di euro di investimenti: hanno solo facilitato la penetrazione cinese nel Paese.
Alla cerimonia di firma a villa Madama, il 24 marzo del 2019, c’era l’intero quartier generale dei pentastellati con un raggiante Xi Jinping, poi ricevuto da Sergio Mattarella che ebbe parole di elogio per il dittatore cinese. D’altra parte il nostro presidente della Repubblica deve essersi trovato bene visto che, dopo una prima visita nel 2017, l’anno scorso è tornato a Pechino: forse per ricucire lo strappo della decisione di non rinnovare nel 2023 gli accordi sulla Via della seta, anche se Giorgia Meloni lo ha preceduto per evitare una rottura delle relazioni. Perché l’Europa che si lamenta con Trump che vuole avere intese bilaterali, non ha mai protestato per la strategia ancora più aggressiva del presidente cinese che tende a parlare solo con i singoli Stati. Il motivo? Le migliori relazioni il Dragone le intrattiene con la Germania e con la Spagna. Le conseguenze sono che l’interscambio tra Roma e Pechino è in calo da almeno tre anni, ma a rimetterci siamo noi che esportiamo (dati riferiti a nove mesi del 2024) per 12,7 miliardi (meno 21,3 per cento rispetto al 2023) e importiamo per 41,7 miliardi (più 1,4 per cento).
Eppure il «cattivo» che ci compra 66 miliardi di prodotti all’anno, però, è Donald Trump.