L’ennesimo scandalo sulle scommesse dei campioni ventenni è solo il sintomo del vero problema: la fragilità di una generazione.
Che cosa spinge questi giovani ricchi e famosi, che giocano nelle squadre più titolate del mondo, hanno soldi e fama, donne e lussi, hanno tutto quello che vogliono; che cosa spinge questi ragazzi fortunati, che dovrebbero soltanto ringraziare il cielo che ha benedetto i loro piedi e trasformato la loro passione in fabbrica di benessere; che cosa spinge, insomma, questi ventenni con un futuro scintillante, a distruggersi a suon di scommesse? Com’è possibile che, con una vita così piena di adrenalina, abbiano bisogno di cercare l’emozione proibita del gioco d’azzardo? Com’è che si ammalano fino a diventare drogati della bisca, tossicodipendenti della puntata clandestina? Di fronte a un centrocampista della Juventus come Nicolò Fagioli che brucia sull’altare della sua malattia un milione di euro in pochi mesi; di fronte a un campione come Sandro Tonali (ex Milan, oggi Newcastle) che ammette in lacrime la propria dipendenza; di fronte a due giocatori (il medesimo Tonali e Nicolò Zaniolo) costretti a sgattaiolare fuori dal ritiro della Nazionale di Coverciano scivolando sulla vergogna; di fronte all’allargarsi dello scandalo che coinvolge sempre più nomi, e sempre più sorprendenti (Tonali solo qualche settimana fa era acclamato come un eroe nel suo ritorno a San Siro).
Il nume tutelare del Grillo mi ha posto la domanda: che cosa succede al nostro calcio? Ma io, vorrei ribaltare la prospettiva. Perché non è tanto quello che succede al nostro calcio che mi preoccupa. È quello che succede ai nostri ragazzi. Penso infatti che il problema sia molto più serio e profondo di quanto apparso nella solita bufera mediatica condita dal nuovo Corona virus, nel senso di Fabrizio, fra fughe di notizie e show assortiti. Penso che questi giovani calciatori siano caduti nella malattia non in quanto calciatori ma in quanto giovani. E penso infine, purtroppo suffragato da dati e testimonianze inequivocabili, che la dipendenza dal gioco stia dilagando tra i giovani esattamente come la dipendenza dall’alcol e dalla droga. E sia la spia di un malessere generazionale drammatico e diffuso, della cui gravità ancora non ci stiamo rendendo del tutto conto. Ma che sta corrodendo dall’interno i ragazzi di quella che una volta era l’età più bella. E oggi è diventata l’età dell’inferno. Senza valori, senza regole, senza disciplina, senza riferimenti certi, senza fede che non sia la ricerca di denaro, i ragazzi hanno tutto, ma in fondo non hanno niente. Schiacciando un tasto del telefonino possono comunicare con chiunque, ma sono sempre più soli.
Scaricando una app sono liberi di fare quello che vogliono, ma sono sempre più prigionieri. Intrappolati dentro la scatola magica della tecnologia finiscono per scambiare il mondo virtuale con il mondo reale, fino a togliersi la vita a 23 anni per un linciaggio social, come è successo a Bologna. Fino a filmare col telefonino il suicidio di un coetaneo, come se fosse uno show, come è successo a Roma. Mai nella storia i ventenni hanno avuto tanti mezzi come quelli di oggi. Tante possibilità. Eppure tante fragilità. Non è un caso se ogni giorno siamo bersagliati da notizie di giovani ubriachi, giovani violenti, giovani che stuprano, giovani che scatenano risse, giovani che si menano, si drogano, si perdono. È il risultato di decenni di picconate ai valori su cui la società si è sempre fondata, a cominciare dalla scuola e dalla famiglia.
Il disagio giovanile è un problema di educazione, non di soldi: lo dimostra il fatto che anche quando, baciati dalla fortuna pallonara, questi ragazzi diventano milionari, si portano dietro i loro disturbi. I loro problemi, i loro abissi. La ricchezza non cancella le ombre della mente. Magari i giovani calciatori non si drogano e non si ubriacano, perché essendo atleti li beccherebbero al primo test o al primo controllo antidoping. Ma si buttano sul gioco. Senza rendersi conto che è facile beccarli anche lì. Il demone è lo stesso, come ha scritto Beppe Dossena, calciatore intelligente, ex campione del mondo e responsabile di una onlus che si occupa proprio di disturbi psicologici degli atleti: «Stiamo assistendo a una vera e propria pandemia per la salute mondiale. Gli sportivi non ne sono esenti ma è un problema che riguarda tutto il mondo dei giovani, frutto anche del lockdown e del Covid. Dobbiamo aiutare i nostri giovani, hanno preso una strada pericolosissima. Bisogna fare qualcosa subito». Sottoscrivo in tutto e per tutto. Bisogna fare qualcosa subito. Perché, vedi caro nume, il punto è questo, e per questo sono preoccupato: se perdiamo il mondo del calcio ci dispiace molto, ma ce ne potremo anche fare una ragione e tirare avanti. Ma se perdiamo il mondo dei giovani, siamo finiti.