DaI seminari europei arrivano numeri allarmanti. a fronte degli strappi del clero di alcuni paesi, emerge però una richiesta di fede che recuperi le vere radici.
«Ci rievangelizzeranno gli africani». Sembra una battuta, ma non lo è. Potrebbe anche sembrare una sorta di spot per un corridoio umanitario di immigrazione di preti dalle terre un tempo convertite dai nostri sacerdoti. Un paradosso rivelatore o uno strano scherzo della Provvidenza, eppure i numeri parlano chiaro: negli ultimi trent’anni i preti stranieri al servizio delle diocesi italiane sono aumentati di dieci volte, mentre il numero totale di sacerdoti in Italia, la terra del Papa, è diminuito del 16,5 per cento. E l’età media del clero italiano, secondo i dati diffusi dall’Istituto centrale di sostentamento del clero, è pari a 60,5 anni, mentre quello straniero ha un’età media di 46,7 anni.
I seminari italiani sono oggi quasi tutti enormi cattedrali nel deserto, abitati da pochi aspiranti al sacerdozio, mentre un tempo accoglievano giovani a centinaia. Il vuoto di questi edifici nelle diocesi italiane è un segno architettonico eloquente di un cattolicesimo che si sta «svuotando» da dentro, per parafrasare un titolo dell’Economist di qualche anno fa.
Nel 2021 l’Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni della Conferenza episcopale italiana mostrava i numeri di una riduzione che prosegue da 50 anni: dal 1970 al 2019 il calo di seminaristi è stato del 60 per cento, e soltanto nei dieci anni che vanno dal 2009 al 2019 la flessione dei seminaristi diocesani è del 28 per cento. In totale l’Istituto ha indicato 1.804 seminaristi diocesani nei 120 seminari maggiori in Italia, un dato che rimanda a un altro: da circa otto anni i nuovi preti nel nostro Paese sono sempre sotto quota 300, una cifra che se confrontata a quelli di altri Paesi, come Belgio od Olanda, tiene ancora desta una speranza, ma sembra solo questione di tempo.
Oltralpe il quotidiano cattolico La Croix ha spiegato che le diocesi francesi stanno perdendo in media un quarto dei preti attivi, nello stesso cattolicissimo Paese che ogni anno conta poco più di un centinaio di nuovi preti, molti peraltro nemmeno diocesani. In Germania, dove la Chiesa ha appena concluso un sinodo che la avvicina molto al rischio scisma, c’è la stessa situazione: nel 2021 nella patria di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI sono stati ordinati solamente 62 uomini. Si potrebbe continuare, allargando l’indagine ad altre realtà europee, ma anche guardando agli Usa le cose, pur mitigate rispetto al grande freddo del Vecchio continente, non promettono nulla di buono con un costante calo del numero di sacerdoti dal 1965, senza cenni di ripresa.
Secondo un recente rapporto commissionato dall’organizzazione Vocation Ministry, dal 2016 al 2021 in Nord America solo 30 diocesi su 175 hanno ordinato un numero medio di sacerdoti pari o superiore al livello di sostituzione. Tutto questo mentre crescono i battezzati nel mondo, come riporta l’Annuario Pontificio 2023, rilevando appunto che Africa e Asia si apprestano a diventare, come diceva papa Paolo VI, «nova patria Christi». In qualche modo la Chiesa sembra davvero passare alle «periferie», secondo un celebre slogan di papa Francesco. Il vento di rinnovamento che lui è stato chiamato a portare, quel vento che lo stesso papa Benedetto XVI sembrava auspicare con la sua clamorosa «rinuncia» motivata per ingravescentem aetatem, vecchiaia, pare essersi spento; qualcuno maligna che in realtà non si è mai alzato nemmeno un refolo.
Oggi il pontefice è più solo, sia nel panorama internazionale, dove la sua battaglia per la pace in Ucraina non trova veri interlocutori, sia all’interno della Chiesa. Qui la «bomba» deflagrata in seno al clero tedesco assomiglia molto all’avvio di una battaglia in vista del Sinodo sul sinodo, un percorso di ripensamento fortissimamente voluto proprio dallo stesso Bergoglio per l’intera comunità ecclesiale. L’orbe cattolico vive malesseri e crisi profonde, mentre non ci sono segnali di una «primavera» che lo rilanci. I numeri delle vocazioni e dei nuovi preti lo testimoniano più di qualsiasi altro dato. «Se mancano le “vocazioni” non è un problema sociologico, o non soltanto. Somiglia più al sintomo di una malattia per la quale trovare una cura» commentava don Michele Gianola, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni sciorinando i dati di cui sopra. Il rischio vero è che su diagnosi e terapia si misuri tutta la grave difficoltà che abita la Chiesa dall’interno. Sono forse le decisioni finali del sinodo tedesco la cura? Ricordiamole brevemente: le donne devono poter predicare e presiedere tutti i sacramenti, eccetto l’Eucaristia e la confessione; via libera alla «festa di benedizione per le coppie che si amano», persone omosessuali così come chi è libero di scegliere un genere sessuale definito «diverso» nei registri dei battesimi; preti sposati; creazione di «comitato sinodale» nazionale e in ogni diocesi, per «decidere insieme», vescovi e laici.
Che far sposare i sacerdoti rappresenti la risposta non ne è convinto nemmeno papa Francesco il quale, pur dichiarando che il celibato non è un dogma, nel 2017 diceva che «il celibato opzionale, cioè lasciato alla libera scelta, non è la soluzione», aggiungendo che «se mancano le vocazioni sacerdotali è perché manca la preghiera», oltre al problema «della bassa natalità». Ma che le future sorti e progressive della Chiesa non passino dall’agenda tedesca si vede da molti segnali. In Francia un sondaggio sul «Sinodo sulla sinodalità». rilanciato dal settimanale Famille chrétienne lo scorso novembre, ha rilevato che il 92,9 per cento degli intervistati si aspetta prima di tutto che un sacerdote dispensi i sacramenti, l’87,6 per cento è favorevole al celibato sacerdotale, il 70 per cento rimprovera alla Chiesa di «non farsi carico delle proprie opinioni e di tacere la Verità per paura di scandalizzare», il 74 per cento vuole che promuova «un modello bioetico, in grado di garantire il rispetto integrale della persona umana, dal suo concepimento sino alla morte naturale», il 70 per cento che «difenda la famiglia nella sua forma tradizionale».
Numeri che rafforzano un’altra analisi francese, quella contenuta nel libro di Vincent Herbinet, Les espaces du catholicisme français contemporain (Presses Universitaires de Rennes, 2021), frutto della tesi di dottorato in Storia, che mette a tema non tanto la fine della cristianità quanto le ricomposizioni osservate a partire dagli anni 80, essenzialmente sotto i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Così Herbinet avanza «l’ipotesi che una militanza cattolica più visibile si stia profilando sulle problematiche familiari, etiche e dottrinali». I giovani credenti, insomma, sono più manifestamente cattolici; lo attestano un’accesa militanza pro vita e famiglia, il rifiorire di pratiche come l’adorazione eucaristica o le processioni e l’attenzione alla liturgia, compresa la messa in latino. Del resto, la «nostalgia» di quest’ultima, ripristinata da papa Ratzinger nel 2007 e quasi abolita da Bergoglio, ha ispirato anche alcuni manifesti comparsi in Vaticano nei giorni scorsi a opera di gruppi di cattolici tradizionalisti che, dicono, «non ci sentiamo ben accetti in questa Chiesa».
Anche negli Usa il sociologo Mark Regnerus ha indicato che se «il cattolico impegnato medio mostra accondiscendenza con le tendenze progressiste nella sessualità e nel comportamento relazionale, lo stesso non è vero tra il clero. Il tipo di uomo che completa il seminario con l’intenzione di essere ordinato è più conservatore in materia di sessualità, così come di altri indicatori, rispetto a quelli che si sono iscritti 20, 30 o più di 40 anni fa».Tutti segni che, se non permettono di dire in modo univoco che laddove ci sono nuove vocazioni si tratta di vocazioni più «tradizionali», offrono però elementi di riflessione per guardare il futuro. Negli ultimi anni è nato un notevole dibattito intorno alle sorti della Chiesa, a volte con toni apocalittici, spesso dietro al bancone da bar sport dei social o con personaggi in cerca d’autore, ma un punto sembra emergere per il cattolicesimo in Occidente. Senza ritirarsi in qualche eremo, o in sacrestia, il tornante della storia appare uno di quelli in cui il lavoro più duro deve essere lasciato a Dio: nel senso che per i credenti c’è da dare testimonianza, ma senza arrovellarsi troppo in fughe dal mondo o tecniche di resistenza alla crisi della Chiesa.
Volendo interpretare i segnali e i numeri che emergono, sembra si stia già ricostruendo una diversa realtà di fede in Occidente. Sarà una Chiesa minoritaria, come profetizzava l’allora cardinale Ratzinger nel 1968, ma più identitaria, più vicina alla lettera del Catechismo rispetto all’agenda «liberal» del sinodo tedesco. Se i giovani, le famiglie e le poche vocazioni che ci sono hanno caratteristiche di maggiore militanza, preghiera e portato dottrinale, non è difficile comprendere che quello delle generazioni post-sessantottine, attualmente ai vertici della Chiesa istituzionale, suoni come un canto del cigno. Ciò che attende i credenti non sarà quindi un tempo per gli indignati in servizio permanente attivo, né per i cercatori di scandali o zelatori amari, scismatici o apostati. A guardare i fenomeni e alcune tendenze in atto pare in arrivo un tempo per veri credenti, capaci di testimonianza e di ripartire da piccole comunità aperte e non settarie, in comunione con Roma.
Il cardinale Giacomo Biffi ripeteva spesso che il credente sa «che Cristo ha già vinto, ma sa anche che la piena manifestazione di questa vittoria sarà un dono escatologico. Questo non lo scoraggia né lo disarma: per essere sé stesso e accogliere totalmente nella verità la salvezza di Dio, egli instancabilmente si adopera a dar vita alla nuova società, alla nuova storia, alla nuova cultura». Forse fra una trentina d’anni tutto ciò sarà molto più chiaro di quanto oggi possiamo vedere, forse ci sarà qualche divisione, ma c’è da stare sicuri che «le porte degli inferi non prevarranno», come non prevarranno le agende progressiste in salsa tedesca.