Si calcola che le imprese, causa il caos di norme, ci rimettano in efficienza decine di miliardi all’anno. Ed è un problema anche per i comuni cittadini. Tuttavia, i politici preferiscono sorvolare.
Periodicamente, in Italia, si torna a contare il numero delle leggi e ci si accorge di tre cose: la prima è che sono troppe, 160 mila norme di cui 89 mila regionali, la seconda è che si tratta di un bel groviglio che supera di dieci volte quello francese, tedesco o inglese, la terza è che questo scherzetto costa 80 miliardi di euro all’anno per le piccole e medie imprese e 23 miliardi per quelle grandi. Ogni due per tre viene fuori uno studio o un documento di qualche associazione di categoria che ci ricorda questi numeri e tutti, senza distinzione, corrono dicendo che bisogna assolutamente mettere mano alla questione in quanto grave e urgente.
Sì, talmente grave e urgente che se ne continua a parlare e, salvo piccole cose, aggiustamenti, ritocchi, insomma quisquilie, di grandi interventi non se ne fanno. L’ex ministro Renato Brunetta ci aveva provato per ben due volte e voleva andar giù con la mannaia, in parte ci è riuscito, ma poi si sono messi tutti insieme e gli hanno spezzato la mannaia. Almeno fece un tentativo e, almeno, qualche risultato lo ottenne. L’eccessiva massa di leggi è dovuta al fatto che in Italia, quando si fa una legge nuova, non si sopprimono le cosiddette leggi concorrenti, cioè le leggi che «concorrono» con essa trattando la stessa materia. Quei 103 miliardi di euro che costano queste norme alle aziende (23 sulle spalle delle grandi imprese) equivalgono a 550 ore di lavoro che sono state evidentemente sottratte alle attività ordinarie delle aziende stesse.
Ora, che un addetto di un’impresa lavori per espletare doveri verso la pubblica amministrazione o che lavori per produrre in senso stretto all’interno dell’azienda non conta dal punto di vista della retribuzione, perché è comunque l’imprenditore a pagare le ore spese dal dipendente per tentare di capirci qualcosa, prima, e tentare poi di applicare la normativa sperando di non sbagliare. La burocrazia attiene all’organizzazione dello Stato – e questo è ineliminabile -, ma in Italia ha ormai raggiunto delle dimensioni che costano ai cittadini 11 punti di Pil e costano a tutti perdite di tempo infernali, gastriti, gastroenteriti, per qualcuno persino la scarlattina, in generale una gran rottura di palle che è, in questo caso, un fenomeno straordinario perché trattasi di rottura a pagamento: non solo me le rompo ma pago anche la rottura, l’incomodo. Tra l’altro non è da trascurare che una burocrazia opaca, che si inceppa di continuo, che impone al soggetto passaggi molteplici e complicati, è anche un potenziale fattore di incremento della corruzione e della concussione, del malaffare.
Più passaggi ci sono più le tentazioni crescono. Volendo tentare la castità di un giovane, un vecchio prete giudicò eccessivo portarlo a visitare un bordello. Era prima del settembre 1958 e la Legge Merlin non li aveva ancora chiusi. La situazione del cittadino nei confronti della burocrazia è abbastanza simile. Una quantità strabordante di leggi, regolamenti, direttive, norme, porta il cittadino stesso a un confronto ravvicinato e frequente con gli uffici dello Stato. Non bisogna mai dimenticare che né i cittadini né chi lavora nella pubblica amministrazione sono angeli scesi dal cielo senza pecca e senza macchia, ma che sono esseri umani come tutti noi e che, in quanto tali, possono essere indotti a trasgredire le leggi. Quindi, oltre alla questione soldi e alla questione tempo, si aggiunge una questione di potenziale corruttela. Ce n’è abbastanza per metter mano con tanto di forbicioni da siepe in questo inutile, anticostituzionale, costoso e nefasto groviglio di disposizioni. Il fatto è che qui si tocca la pubblica amministrazione e quindi i dipendenti di essa, ai quali il politico di turno riserva sempre una certa delicatezza perché sono signore e signori che votano, hanno votato e voteranno. Cioè, cambiano i politici ma i dipendenti pubblici rimangono a tutti i livelli: bassi, alti e altissimi. La pavidità di qualcuno lo trattiene dall’intervenire dove e come dovrebbe.