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Cuba, la disfatta che fece la fortuna della rivoluzione

Cuba, la disfatta che fece la fortuna della rivoluzione

Settant’anni fa, con il fallito attacco alla caserma «Guillermo Moncada», va in scena il primo atto del progetto insurrezionale di Fidel Castro, che lo porterà al potere dopo molte peripezie nel 1959. Un passaggio storico in cui già si afferma la determinazione dell’uomo che da allora ha scandito il destino dell’isola.


Anche se l’esito ebbe contorni tremendamente disastrosi, l’assalto alla caserma «Guillermo Moncada» (il 26 luglio 1953) è considerata la data di riferimento della rivoluzione che, a Cuba, portò Fidel Castro alla conquista del potere. E, infatti, forse per legittimarne il significato o, più probabilmente, per una sorta di rivincita, gli insorti che accettarono quel progetto politico si riconobbero nel Movimento 26 luglio spesso indicato con l’acronimo «M 26-7». E da quando la guerriglia è diventata governo, in quel giorno di luglio è stata collocata la festa nazionale perché celebra il «Día de la Rebeldía Nacional».

A Cuba, le sperequazioni sociali si trascinavano da quando gli spagnoli, negli ultimi anni dell’Ottocento, scelsero di abbandonare le terre che occupavano e che pretendevano indipendenza. Per non andarsene da sconfitti, preferirono vendere agli Stati Uniti alcuni loro possedimenti (come Porto Rico) e affidare Cuba a una sorta di protettorato Usa. L’oligarchia che s’insediò non ebbe che scarse possibilità di autonomia e, certo, ogni vantaggio economico attraversò quel braccio di oceano (in realtà, abbastanza stretto: circa 160 chilometri) per approdare sulla costa della Florida, a beneficio del capitalismo yankee. Contadini, braccianti, manovali rappresentavano una forza numericamente imponente ma non esisteva una leadership in grado di darle voce. Gruppi di matrice socialista ce n’erano persino troppi. Si presentavano con programmi d’ispirazione operaista ai quali aggiungevano elementi che, oggi, si direbbero «populisti». La metà delle istanze di queste formazioni, la gente – per la maggior parte analfabeta – non le comprendeva e dell’altra metà non si fidava.

Fidel Castro si convinse che la rivoluzione armata fosse l’unico modo per scuotere quella sonnolenza sociale. Il personaggio era di quelli che riempivano la scena: alto, dritto sulle spalle, con il viso incorniciato dalla barba che gli dava un’aria vissuta e uno sguardo che lo faceva risultare interessante. Dopo i primissimi passi come agitatore, prese a parlare di sé utilizzando il plurale. A esprimersi con il «noi» al posto dell’«io» c’erano soltanto lui e il Papa. Un microfono in mano gli assicurava una forza sovrumana. I suoi discorsi potevano durare ore per un tempo che avrebbe stroncato qualunque oratore e tutti gli ascoltatori. A lui non cedeva il tono della voce e riusciva a non perdere il contatto con il suo pubblico. Si affidava alla sonorità delle espressioni, prendeva in prestito alcuni riferimenti immaginifici ma a dargli autorevolezza era il gesticolare apparentemente pacato delle mani. Quando tendeva il braccio e puntava il dito verso l’alto sembrava in grado di acchiappare la luna e la gente si sentiva proiettata in un futuro di speranza. Ha parlato tanto e ha detto di tutto senza preoccuparsi che, alle dichiarazioni, seguissero i fatti.

Assicurò che Cuba avrebbe raggiunto un tenore di vita superiore a quello degli Stati Uniti e non riuscì ad affrancare la sua gente dalla tessera del razionamento alimentare da procurarsi con la libreta. Era convinto che Cuba avrebbe creato formaggi migliori di quelli francesi ma, di quel progetto, rimane soltanto un monumento alla vacca costruito sulla passeggiata dell’isola dei Pini. Si vantava di aver creato «una terra di libertà» negando – forse anche a sé stesso – che i cubani si aggrappavano a una camera d’aria di automobile per gettarsi in mare e scappare a nuoto da uno stato di polizia diventato irrespirabile. Prepotente ma seducente; dogmatico ma brillante; violento ma colto; cinico ma, a suo modo, anche affabile. Il fatto è che «noi siamo il pueblo, la revolución e la nación» dando per scontato che chi non si trovava d’accordo si collocava automaticamente nei ranghi – meritevoli di castigo – degli antipueblo, dell’antirevoluciòn e dell’antinaciòn.

Il giornalista Carlo Coccioli (in una corrispondenza per il Corriere della Sera) lo descrisse come un «gigante bambino» perché aveva «le fobie dei bambini, il coraggio dei bambini e la crudeltà dei bambini». Per incoscienza fanciullesca, infatti, rischiò di far scoppiare la Terza guerra mondiale quando mise Cuba a disposizione dei sovietici che volevano installare alcune batterie di missili nucleari. Come dire un arsenale nel sottoscala degli Usa. Il presidente americano era John Fitzgerald Kennedy. A Mosca comandava Nikita Chrušcëv. Si arrivò a un millimetro dallo scontro poi prevalse la saggezza. Non quella di Fidel Castro. Che, tuttavia, a dispetto dei detrattori, si è conquistato un posto nella storia.

Cominciò progettando appunto l’assalto alla caserma «Guillermo Moncada», che stava alla periferia di Santiago di Cuba, zona orientale dell’isola. Era un complesso poderoso a pianta quadrata con sistemi di difesa – per l’epoca – sofisticati. Per questo l’esercito regolare lo considerava un gioiello da mostrare anche alle delegazioni militari straniere che arrivavano in visita. Velleitario immaginare di espugnarlo con un commando raccogliticcio di volontari, animati da entusiasmo ma senza esperienza di combattimento. E soprattutto senza armi. Di questa gente, Fidel Castro era riuscito a metterne insieme qualche centinaia ma, anche a suo giudizio, per un assalto, non poteva impiegarne nemmeno la metà. E anche quelli – di per sé più determinati degli altri – dovettero essere almeno un po’ ingannati. Lasciò intendere che si sarebbe trattato di un’azione dimostrativa per tastare i dispositivi di difesa dei governativi e misurare il coraggio dei suoi rivoluzionari.

L’assalto alle 5 e 15 quando l’alba era ancora arrugginita di penombra, con le guardie che, con gli occhi pesanti, al termine del turno di servizio, già si sentivano in camerata per riposare. Gli uomini di Fidel Castro riuscirono ad avvicinarsi alla guarnigione perché si mossero su due camion che potevano essere confusi con quelli in dotazione dell’esercito. E chi stava alla guida di quei veicoli aveva potuto vestirsi con le uniformi militari. I rivoltosi riuscirono a disarmare i soldati che stavano sul portone d’ingresso ma, a quel punto, complice un piano abborracciato all’ultimo momento, non seppero cosa fare. Una sentinella poco distante s’insospettì perché quegli uomini gli sembrarono troppo vecchi per essere delle reclute e dette l’allarme. Lo scontro a fuoco fu violento e non lasciò scampo ai rivoluzionari. Per 19 governativi che restarono a terra, furono uccisi 61 ribelli mentre altri 51 vennero catturati e torturati selvaggiamente. Con il senno del poi, conquistato il potere, gli sconfitti della prima ora denunciarono che ai prigionieri cavarono gli occhi.

Fidel Castro con una dozzina dei suoi riuscì a fuggire e a raggiungere la Sierra Maestra ma, senza contatti esterni, circondato dalla diffidenza dei campesinos e braccato dalle forze di sicurezza, tempo quattro giorni, il primo agosto (1953) non sfuggì a un rastrellamento. Il processo che seguì ebbe uno sviluppo enormemente più umano rispetto alla rappresaglia attuata nell’immediatezza dell’azione militare. Fidel Castro aveva studiato legge ed era un avvocato. Gli fu consentito di difendersi da solo e lui impancò un’arringa di quattro ore che trasformò in un atto d’accusa contro il governo in carica di Fulgencio Batista. Lì, usava ancora qualche espressione al singolare e pronunciò la frase diventata famosa: «La storia mi assolverà». Per l’intanto, i giudici gli inflissero 15 anni. Gli riconobbero le attenuanti applicando un principio che stava nella carta costituzionale e accettava il «diritto di ribellione». All’isola dei Pini dove lo confinarono restò un paio d’anni, poi, una serie di rivolte che attraversarono l’isola gli consentirono di fuggire in Messico. Lì trovò amici (come Ernesto Che Guevara), finanziamenti in dollari americani e il tempo per pianificare la rivoluzione con contenuti meno approssimativi. Alla fine dell’anno 1956, con 81 compagni, stipati su uno yacht opportunamente rinforzato sbarcò a Cuba, si rifugiò sulla Sierra Maestra e, questa volta con complicità irrobustite, avviò la guerriglia che lo portò a L’Avana. Dovette attendere fino al 1959, superando momenti non sempre brillanti ma il 16 febbraio giurò come primo ministro. Per accettare l’incarico, pretese che i poteri istituzionali fossero amplificati. Cominciava una dittatura «per legge».

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