Nell’aprile di cinquant’anni fa un ragazzo moriva dopo una lunga agonia. Si chiamava Sergio Ramelli. Era un militante del Fronte della gioventù, l’organizzazione giovanile della destra nazionale, milanese, aveva scritto un tema in classe sul terrorismo delle Brigate rosse.
Un gruppetto di studenti di Avanguardia operaia pubblicò sulla bacheca all’entrata della scuola il suo tema, accompagnandolo con una scritta: «Ecco il tema di un fascista». Poi fu aggredito, preso a pugni e sputi, deriso e dileggiato, fino a quando apparve la scritta «Ramelli fascista sei il primo della lista». E una sera, mentre tornava a casa, fu aggredito da quattro militanti del gruppo di estrema sinistra che lo colpirono con la chiave inglese fino a sfondargli il cranio e lo lasciarono in una pozza di sangue sul selciato. Poi, dopo alcune settimane di agonia, Sergio morì.
Avevo allora la sua stessa età, ed ero stato anch’io da ragazzo militante del Fronte della gioventù, al mio paese. Sentii che con lui era stata uccisa anche una parte di me, avrei potuto scrivere lo stesso tema e mi esponevo anch’io con la bandiera tricolore nelle piazze e le mie idee a scuola; ma ebbi la fortuna di vivere in un luogo meno rovente, dove non si usava la chiave inglese, e dove le parole raramente si facevano armi letali, al più scoppiavano tafferugli. Oggi quel ragazzo lo ricordano in tanti, non solo a destra; anche Walter Veltroni lo ha ricordato, e gli fa onore.
Di recente Giuseppe Culicchia gli ha dedicato un bel libro in cui ha ricostruito la vicenda e il clima terribile di quei giorni. S’intitola Uccidere un fascista (Mondadori).
Aprile, il più crudele dei mesi
Sempre in aprile, «il più crudele dei mesi» secondo T.S. Eliot, a Roma, due anni prima erano stati trucidati due ragazzi, anzi un ragazzo e suo fratello, un bambino di 8 anni, colpevoli di essere figli del segretario locale della sezione del Movimento Sociale. Furono bruciati in casa loro, mentre dormivano, in quello che sarà ricordato come il rogo di Primavalle. Gli assassini furono dei militanti di Potere operaio. Era una casa popolare, era una famiglia umile, con sei figli, poteva essere una strage con più vittime. Si chiamavano Virgilio e Stefano Mattei.
Altri nomi di vittime della violenza mi sovvengono ma evito di elencarli. Su molti di loro, a parte i rituali dei militanti e i loro nomi citati nei comizi e nei manifesti missini, calò il silenzio e l’omertà, come se fossero figli di un dio minore, o peggio di un dio malvagio, vittime maledette, incluso quel bambino di 8 anni.
Lascio stare le accuse e le recriminazioni, in una stagione che ebbe tante vittime tra i ragazzi di destra ma anche di sinistra, oltre che tra i giovani in divisa, le forze dell’ordine. Ma vorrei constatare che furono vittime di una guerra mai nata, di una rivoluzione abortita; vittime di uno scontro in cui ci furono sì criminali e vittime, ma non ci furono vincitori né vinti, perché alla fine non trionfò né la rivoluzione comunista dei loro carnefici né la rivolta ideale di quei giovani neofascisti.
È terribile morire in una guerra civile ma più terribile è morire in tempo di pace; quando partecipi a una guerra civile sai a cosa puoi andare incontro perché sai che stai combattendo per una causa e in una sfida in cui uno alla fine trionferà sull’altro. Ma nel caso degli anni di piombo e delle violenze che imperversarono negli anni Settanta, c’è pure la beffa di una storia inconcludente, che non ebbe esiti, se non la vittoria dello status quo e di un mondo che non piaceva né alle vittime né ai carnefici.
Il loro sacrificio non servì a nulla, nemmeno ai fini cinici e impietosi della storia. Il potere restò inalterato, i governi continuarono a succedersi nella stessa formula, con gli stessi protagonisti; il potere politico non ne ebbe a soffrire. Per usare il gergo del tempo, vinse il Sistema, che entrambi avversavano seppure con motivazioni diverse.
La loro unica motivazione fu paradossalmente retroattiva: era un conto residuo della guerra civile, che ora compie 80 anni; quei ragazzi morivano nel nome del passato, di un passato che non avevano conosciuto, il regime fascista e la guerra partigiana, e la speranza abortita di una rivoluzione dopo la resistenza, l’avvento di un regime comunista, proletario, che non vide mai la luce né mai avrebbe potuta vederla, perché il mondo in quel tempo si atteneva a una rigida spartizione, decisa a Yalta.
Dunque la ragione della loro guerra era puramente retroattiva e simbolica, riguardava trent’anni prima e un’altra generazione, e comunque non avrebbe potuto cambiare gli assetti nazionali e mondiali prestabiliti. Puro rancore rimasto nell’aria del tempo. Pura contabilità dell’odio, permanenza del livore elevato a categoria antropologica, senza più ragion d’essere, senza nessun futuro e nessun presente.
E quanto quell’odio sia ancora circolante lo dimostra un ennesimo strascico dei nostri giorni. Che risale ancora a un aprile di sangue, non di trent’anni fa ma addirittura di ottantun’anni fa. È stata negata l’intitolazione di una rotonda di Firenze al più grande filosofo italiano del Novecento, Giovanni Gentile, su cui spesso abbiamo scritto e di cui in questi giorni è uscito un densissimo e umano ritratto della sua vita in famiglia: s’intitola proprio La famiglia Gentile. Lettere e fotografie dal 1900 al 1945, un corposo volume pubblicato dalle edizioni Le Lettere, dei nipoti del filosofo ucciso.
A negare l’intitolazione toponomastica al filosofo è stata tra gli altri il sindaco di Firenze, Sara Funaro del Partito democratico. Dimenticando l’umanità di suo nonno, Piero Bargellini, il sindaco di Firenze ai tempi dell’Alluvione, lo scrittore cattolico e politico democristiano, il sindac* (o/a) in carica della città in cui visse e morì Gentile, ha rigettato la proposta prendendosela con la destra al governo che «ha ancora lo sguardo rivolto agli anni peggiori del nostro passato».
Non vorrei ricordare, ancora una volta, la coerenza e l’umanità di Gentile, il suo ruolo di pacificatore che si assunse in piena guerra mondiale e civile, la sua difesa di antifascisti ed ebrei, la sua distanza dal nazismo; mi limito a dire che fu un grande filosofo, come pochi ce ne sono nell’arco di secoli, e che fu riconosciuto tale da grandi studiosi di ogni versante; fu grande ministro della Pubblica istruzione, fondatore di importanti istituzioni culturali, come l’Enciclopedia Italiana Treccani.
E aggiungo che col miserabile criterio di cancellare la memoria di chi ha avuto legami con poteri nefasti, noi dovremmo cancellare la memoria di Seneca perché fu consigliere di Nerone; e perfino quella dei due più grandi filosofi dell’antichità, Platone, che fu consigliere del tiranno di Siracusa, e Aristotele, il «maestro di color che sanno», che fu precettore di un imperatore spietato come Alessandro Magno. E potremmo continuare la caccia nei secoli.
Questo ennesimo esempio meschino di cancel culture mostra quanta barbarie sia ancora operante nel nostro tempo; quanto odio sia ancora attivo e rigurgitante, come un vomito permanente, sulla nostra storia, sul nostro pensiero, sulla nostra civiltà e umanità.
Il mondo cambia, anche troppo, il tempo corre in fretta, ma loro sono ancora lì, fermi, a sputare sui morti e a negare onorata sepoltura anche ai più grandi. Vomito ergo sum, è ormai il loro codice di vita e il loro motto araldico.