Distanti per convinzioni e ideologia – uno democristiano, l’altro comunista – intrecciarono l’azione, quando la Repubblica era appena nata. Entrambi, però, grandi politici.
Così simili da trovarsi ricacciati – quasi per legge fisica – su fronti opposti. Infanzia tribolata, «primi della classe» a scuola, rigorosi nel separare il pubblico dal privato, convinti della forza della mediazione e persuasi che il dovere andava onorato con energica risolutezza. Alcide De Gasperi che, al timone della Democrazia cristiana e del Consiglio dei ministri, portò l’Italia fuori dalla tempesta della guerra mondiale, ebbe da duellare senza tregua con Palmiro Togliatti che, a capo del Partito comunista, gli dava addosso dall’opposizione con lo zelo caparbio del combattente.
De Gasperi morì in Valsugana il 19 agosto 1954. Togliatti, in vacanza in Crimea, fu vittima di un ictus che lo stroncò il 21 agosto 1964. Dieci anni. Adesso, con una tecnologia che sembra vecchia al momento di consegnarsi al mercato, offrono l’immagine di un tempo enormemente dilatato. Ma, allora, l’accelerazione sociologica prossima all’immobilità diede l’impressione della (quasi) contemporaneità. E fu un capitolo di storia che si chiuse. Con la caduta del fascismo si affacciarono alla vita pubblica ed erano – entrambi – sconosciuti alla quasi totalità degli italiani. Uno – De Gasperi – aveva preso il posto di don Luigi Sturzo quando, costretto all’esilio, dovette abbandonare la guida del partito cattolico. Ma, pure lui, nell’atmosfera asfittica del ventennio, si trovò a vivere da perseguitato. Accettò l’incarico di bibliotecario in Vaticano tanto da arrivare alla fine della guerra senza danni evidenti.
Anche l’altro – Togliatti – si trovò nella necessità di nascondersi per evitare guai con le camicie nere. La vita in clandestinità lo portò ad Angera, sul lago Maggiore, a Lione, a Parigi, in Spagna (durante la guerra franchista) e a Mosca. Alcuni gruppi di comunisti credevano che si chiamasse Paolo Palmi. Altri lo conobbero con il nome di Ercole Ercoli. La fine del regime li portò ad affrontare il pubblico delle piazze al quale non erano abituati. De Gasperi era uomo di curia, portato a discutere con pochi interlocutori, nel chiuso di stanze ovattate, dove i ragionamenti dovevano svilupparsi con ordine più che con efficacia. Togliatti si era tenuto alla larga dalle agitazioni di massa per occuparsi di organizzazione dalle retrovie. Padroneggiava il linguaggio del sinedrio che pretendeva argomentazioni circolari, con gli stessi concetti continuamente riproposti per assicurarsi che fossero compresi nel dettaglio. Sul podio salivano malvolentieri. Nessun atteggiamento declamatorio che l’oratoria da comizio imponeva. E, a dirla tutta, risultavano noiosi.
Il pubblico li accettò per il prestigio dei ruoli che rappresentavano. L’Italia era uscita dal conflitto mondiale con le ossa rotte. De Gasperi, nel 1946, a Parigi, alla conferenza di pace, parlò – stando in piedi – ai 21 rappresentanti delle potenze alleate che potevano sembrare i docenti ai quali presentarsi per l’esame di maturità o – alternativamente – i giudici da convincere a concedere (almeno) le attenuanti generiche. Lui restò con il cappello in mano ma non in atteggiamento mendico. «Sento» scandì perché gli interpreti potessero tradurre agevolmente «che quasi tutto è contro di me: tranne la vostra personale cortesia». Anche se, il solo segno di rispetto, gli venne dal segretario di Stato americano James Francis Byrnes che fu l’unico a stringergli la mano. Però, tutti gli altri si convinsero che l’Italia non andava qualificata fra i Paesi nemici. Badò all’interesse comune anche Togliatti quando (14 luglio 1948) in via della Missione, affacciandosi a un’uscita secondaria di Montecitorio, fu ferito da Antonio Pallante, un esagitato fuoriuscito dal Fronte dell’uomo qualunque di Gugliemo Giannini, che gli sparò tre rivoltellate.
Non rimase ucciso perché la pistola era un ferrovecchio e i proiettili di scarsa qualità. Morti e feriti si contarono a Genova, Napoli, Taranto e Torino. I comunisti colsero il pretesto dell’attentato per scendere in piazza. L’ora della rivoluzione proletaria? La rivolta non poteva che riproporsi con le caratteristiche della guerra civile e, dopo i disastri patiti negli ultimi scampoli di guerra, era davvero l’ultima cosa che serviva al paese. A fermarli fu Togliatti stesso. Dall’ospedale un consiglio che sembrò un ordine: «Stare calmi» e «Non fare pazzie». I comunisti posarono bandiere e spranghe per ritornarsene a casa.
Gli storici che esaminano i loro profili biografici non nascondono gli errori che commisero ma concedono a entrambi il merito di aver operato applicando le regole – mai troppo scontate – della realpolitik. De Gasperi, forse per il carattere mutuato dalla gente di montagna, era un solitario. Era nato quando il Trentino faceva parte dell’impero austro-ungarico. La sua italianità non aveva tentennamenti anche se risultava temperata dall’ammirazione per l’architettura politica di Vienna. Ugualmente, il suo cattolicesimo – altrettanto profondo – fu addolcito dal rifiuto per l’integralismo. In politica accettò le astuzie, i temporeggiamenti, i compromessi e – se proprio indispensabile – anche le bugie. Ma evitò due rischi: il potere per il potere e il successo personale sulla pelle del Paese. Allevò una generazione di dirigenti politici e non esitò ad affidarsi a giovanissimi a cominciare da Giulio Andreotti che, nemmeno trentenne, esordì nel governo come sottosegretario alla presidenza del Consiglio.
De Gasperi era identificato come «uomo dei preti» e, tuttavia, fu l’unico a difendere lo Stato dalle interferenze della chiesa. Nel 1952, si sottrasse alle pressioni di Papa Pio XII che sollecitava un’alleanza politica con i partiti di destra. Qualche mese dopo, il Pontefice rifiutò di riceverlo in occasione del trentesimo anniversario del suo matrimonio e lui non stette in silenzio. «Come cristiano – scrisse alla segreteria vaticana – accetto l’umiliazione ma come capo del governo m’impongo di esprimere stupore per un rifiuto così eccezionale e di chiedere un chiarimento». Anche Togliatti era italiano soltanto un po’. Prese la cittadinanza sovietica e rivendicò la scelta con accenti che, pur nell’agone della polemica, sembrarono eccessivamente sbrigativi. «Non mi sento legato all’Italia come patria» assicurò. «Mi considero cittadino di quel mondo che vogliamo vedere unito a Mosca, agli ordini di Stalin». Per aggiungere: «Come italiano mi sentivo un miserabile mandolinista: come sovietico sento di valere 10 mila volte in più».
Lo dipinsero come un mostro di cinismo e, certo – al netto di esagerazioni antiapologetiche – risulta impossibile non imputagli i comportamenti del gelido calcolatore. Venticinque anni all’ombra di Stalin (che era il più scomodo dei padroni) lo obbligarono a mettere da parte remore e rimorsi a costo di sacrificare compagni orgogliosamente comunisti ma diventati «nemici del popolo» perché chiedevano che le premesse ideologiche del partito venissero attuate nella pratica. Avvallò lo sterminio dei dirigenti comunisti polacchi (a eccezione di Wladyslaw Gomulka) e accettò che i fuoriusciti italiani «non più ortodossi» venissero mandati a morire in Siberia. Delle purghe di quel tempo, le lettere che Emilio Guarnaschelli spedì al fratello Mario rappresentano un documento di straordinaria umanità. Tuttavia, la spregiudicatezza di Togliatti non perse mai di vista il senso del reale.
In Unione Sovietica, riuscì a mediare fra le posizioni divergenti dei comunisti di Ungheria, Cecoslovacchia e, soprattutto, Cina al punto che colleghi del Comintern gli attribuirono il titolo di «giurista». Il fiuto politico che aveva di suo, affinato dal peregrinare per l’Europa, gli consentì di rendersi conto, fin da subito, che l’Italia non era un Paese da rivoluzioni. Per questo, fin dal 1946, propose l’amnistia per i reati politici in modo che la società chiudesse il tempo del rancore per riprendere a camminare con serenità. All’interno del partito, non fece che disinnescare le mine di rivolta che i vari Secchia pretendevano di far brillare. E si fece promotore di «una via italiana al socialismo» dopo la morte di Stalin nel 1956. Il potere – il Pci – poteva conquistarlo solo d’accordo con l’altra forza popolare che rappresentava il mondo dei cattolici.