Lo stereotipo di un movimento centralizzato ha dominato a lungo. In realtà, a livello locale ha avuto larga autonomia, specialmente i primi anni. Come documenta una ricerca, partendo dal «caso Basilicata».
È nel 1921 (cent’anni fa) che – dopo la fondazione in piazza San Sepolcro a Milano, il 23 marzo 1919, e lo scontato periodo di assestamento politico – il Partito fascista mise radici territoriali più ampie, moltiplicando consensi, iscritti e sezioni. Si è sempre ritenuto che il movimento fosse ordinato secondo regole gerarchiche e governato dall’alto, in senso piramidale, attraverso un controllo rigoroso che, dal centro, scendendo a cascata, arrivasse anche alla più estrema delle periferie.
Invece, lo studio di Elena Vigilante con una ricerca dedicata al «caso Basilicata» (Il fascismo e il governo «locale») rovescia la prospettiva dimostrando che, in provincia, i gerarchi rivendicarono (ottenendole) autonomie anche significative. Il primo Fascio nacque a Matera. Inizialmente si trattò di una costituzione abbastanza informale. Nella casa privata del tenente degli Arditi Savino Fragasso, alcuni militari con qualche intellettuale (per esempio Giuseppe Ciaculli, Benvenuto Conti e il professor Francesco Casalini) giurarono davanti a un quadro di Benito Mussolini.
Il 31 gennaio 1921 la presentazione ufficiale con l’iniezione di un gruppo di giovani fra i quali Luigi Schiuma e Antonio Fasano, destinati l’uno al ruolo di Federale e l’altro a quello di segretario dei Gruppi universitari fascisti. Anche se il personaggio più significativo (almeno all’inizio) risultò Francesco D’Alessio, laurea in giurisprudenza, ceto benestante e, tuttavia, in grado di rivendicare l’utilizzo delle terre incolte per i contadini poveri.
Matera si conquistò, da subito, una libertà d’azione che la spinse a rapportarsi con Bari e la Puglia, dove Araldo Di Crollalanza era riuscito a guadagnarsi un ruolo di autentico reggente. Potenza e il resto della Basilicata imboccarono una strada differente sul piano organizzativo e su quello – per così dire – ideologico sul quale pesò l’influenza di Nicola Sansanelli, avvocato, volontario in Libia e combattente sul Carso.
Qui, il serbatoio di voti venne assicurato da Vito e Franco Catalani, padre e figlio, originari di Vaglio, esponenti della nobiltà terriera della quale volevano salvaguardare i diritti. L’obiettivo più evidente risultò l’ostilità nei confronti del presidente del consiglio in carica Francesco Saverio Nitti che Gabriele D’Annunzio accusava di codardia. Per l’esattezza lo definì un «cagoia» e, per non correre il rischio di essere equivocato, fece in modo che un suo legionario – Guido Keller – dall’aeroplano lanciasse un pitale sul tetto del Parlamento. Che quello fosse il bersaglio delle polemiche fasciste lucane si spiega con il fatto che Nitti aveva lì il suo collegio elettorale che gli assicurava il lasciapassare per Roma.
In occasione delle consultazioni elettorali vennero indicati i candidati che, teoricamente, avrebbero dovuto essere definiti da una commissione nazionale e, invece, furono scelti localmente, solo con un avallo formale da Roma. E silenzio dal «centro» quando, nel 1929, venne silurato D’Alessio con tutta la classe dirigente. I nuovi (capeggiati da Biagio Orlandi) entrarono in carica per cooptazione e attraversarono per intero gli anni Trenta fino allo scoppio della guerra.
Dunque, sembrerebbe un’illusione ottica il fascismo che si proponeva come artefice di una nazione nuova, fortemente coeso al centro, nemico dei protagonismi locali. In realtà fu costretto a tenere in conto e – non marginalmente – dei potentati delle periferie che, in casa loro, mantenevano il controllo delle persone e delle istituzioni.
Più che il blocco granitico della propaganda, si trattò piuttosto di un mosaico di fascismi – al plurale – con classi dirigenti non sempre compatte e con interessi particolari da far valere. Non di rado, interpreti di rivalità personali e geografiche che venivano da una storia ancora più antica. A conferma: i resoconti degli atti parlamentari di quegli anni offrono la testimonianza di come le regioni venissero premiate dagli stanziamenti di bilancio.
In concreto Franco Catelani, deputato in Parlamento, intervenne per chiedere stanziamenti per lavori pubblici nel settore acquedotti, strade ed edilizia scolastica. Arduino Severini pretese interventi per riparare i danni del terremoto del luglio 1930 che, dopo anni, non erano stati liquidati. La storia del fascismo – per la verità l’intera storia d’Italia – va ricercata non tanto a Roma, quanto sotto i campanili dei capoluoghi regionali.Con il fascismo lucano indagato da Vigilante sono riconoscibili un fascismo lombardo e uno piemontese, il romagnolo, il sardo e il marchigiano. Ciascuno con tradizioni, equilibri precedenti, rivalità che il tempo non aveva smorzato.
Il partito fascista romagnolo – soprattutto Ferrara – si trovò a gestire il conflitto fra i braccianti agricoli animati da principi socialisti e i proprietari terrieri che si muovevano su posizioni decisamente conservatrici. La novità politica venne inizialmente rappresentata da Olao Gaggioli, fondatore del «fascio futurista», che sembrò orientarsi a sinistra con un programma di richieste a favore dello sciopero, del voto universale e di aumenti salariali. Tanto da allarmare i possidenti che, sponsorizzando Italo Balbo, scesero in campo per impadronirsi del partito.
Gli agrari conservatori indossarono la camicia nera e s’impegnarono nella «battaglia del grano». In un giorno dedicato alla mietitura, Benito Mussolini si tolse la camicia e lavorò per un’ora con i contadini. Il contrario in Sicilia dove i nobili disponevano di proprietà grandi quanto un latifondo feudale che, però, erano lasciate in abbandono e delle quali, talvolta, non erano in grado di indicare con esattezza dove iniziavano e dove finivano. Perciò le rivendicazioni contadine di chi chiedeva l’opportunità di lavorare quelle terre per camparci sopra non provocavano contrasti esasperati. Le stesse organizzazioni socialiste finirono per trovarsi incorporate in quelle fasciste.
Mussolini, in Veneto, si trovò alle prese le devastazioni del Primo conflitto mondiale: i paesi in macerie e la gente piegata sotto il peso della povertà. La scena politica venne occupata dai reduci. L’obiettivo consisteva nel rivendicare la riparazione dei danni di guerra e nell’equa ripartizione dei vantaggi che la vittoria aveva consentito. Aspiravano a un «Adriatico italiano», progetto al quale Pietro Marsich dedicò ogni energia. Almeno fino alla morte avvenuta nel 1928. E, a dimostrazione di quanto fossero potenti i dissidi interni al partito, nessuno dei «vertici» fascisti presenziò al suo funerale. Solo nel 1943, con la Repubblica Sociale, lo riabilitarono, apprezzando proprio la sua intransigenza morale.
In questo contesto, l’ultima della classe sembrò Torino che era città operaia e politicizzata di suo. I socialisti avevano presa sulla gente, e un buon gruppo di loro traslocò con i comunisti. Le donne, anche durante la guerra, avevano inscenato piazzate, pretendendo pane per mandare avanti la famiglia. Il partito di Mussolini contò dapprima su Mario Gioda che, più che fascista, era anarchico con convinzioni progressiste e, proprio per questo, schiacciato fra partiti radicati. Riuscì a mettere insieme 581 iscritti che, confrontati con i 6 mila lombardi e i 2 mila romani, rappresentavano una dimensione irrilevante.
La compagine politica si affermò con le spedizioni punitive di Piero Brandimarte e l’organizzazione di Cesare Maria De Vecchi. Loro abbandonarono il terreno della concorrenza a sinistra per intercettare un consenso di tutt’altro segno. Ma sempre con punte di diffidenza nei confronti di Roma, che ricambiò. Nel primo governo Mussolini, a De Vecchi lasciarono uno strapuntino come sottosegretario alle pensioni. Poi lo spedirono in Somalia in modo che la sua incidenza nella politica nazionale fosse schermata da qualche migliaio di chilometri di distanza.