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Giacomo Puccini: una vita vissuta come in un romanzo

Giacomo Puccini: una vita vissuta come in un romanzo

Cento anni fa si spegneva il geniale compositore di Tosca e MAdama Butterfly. Con una biografia che tra amori, tradimenti e inquietudini, sembra uscire da una sua opera.


Il genio musicale non è in discussione – con capolavori dalla Bohème alla Turandot, passando per Tosca e Madama Butterfly – ma, oggi, il Giacomo Puccini sciupafemmine non sfuggirebbe all’accusa di «patriarcato». E gli ambientalisti avrebbero anche da contestargli la passione per i motori (inquinanti) di grossa cilindrata e quella per le battute di caccia (irrispettose del regno animale). Lui sentiva orrore per la morte (che incontrò cent’anni fa, il 29 novembre 1924). E provava fastidio per la vecchiaia che (dapprima) tentò di esorcizzare immaginando di sottoporsi a un intervento chirurgico di natura estetica ma che (poi) fu costretto a subire perché la malattia ai reni di cui soffriva impedì l’operazione. Visse come un dandy. Gli anni del suo tempo rappresentarono i capitoli di un romanzo del quale fu il protagonista, costretto a zigzagare fra bugie maliziose e sotterfugi puerili, innamoramenti improvvisi e tradimenti scoperti. Cominciò con l’invaghirsi di Elvira Bonturi che era sposata con due figli. Fu proprio il marito a indirizzarla da Puccini perché voleva migliorarsi al pianoforte. E chi meglio del «maestro» avrebbe potuto accontentarla? Lasciò la famiglia ma non conquistò l’amore che, anzi, ogni volta, fu occasione di tormento e, talvolta, di strazio.

Lui, quando lei rimase vedova, la sposò senza nascondere che si trattava di una «vecchiata» come se si trattasse di un obbligo mal accettato. Una riparazione fuori tempo massimo, cui dare corpo più per convenzione che per convinzione, Ma quella soluzione non giovò nemmeno a lei. Si ritrovò a scandire i giorni ossessionata dalla gelosia al punto da equivocare gesti e atteggiamenti. Licenziò Doria Manfredi, che era al suo servizio come domestica perché le sembrarono torbidi gli approcci fra quella ragazzina e il suo uomo. E quando la incontrava per strada – non importa se al mercato o davanti alla chiesa – la rincorreva al grido di «prostituta». Puccini ed Elvira potevano vivere senza curarsi dei pettegolezzi che li circondavano ma Doria non aveva ancora compiuto i vent’anni anni e non resistette agli sguardi di rimprovero della gente. Ingoiò delle pastiglie che servivano per pulire i bagni e morì fra sofferenze inumane. Non c’era nessuna tresca fra loro due. Lei si era prestata a fare da messaggera con la cugina Giulia che – lei sì – era l’amante del «maestro». Puccini risarcì la famiglia della vittima con 12 mila lire che, nel 1908 rappresentavano una cifra spaventosa. La canzone «vorrei avere mille lire al mese» per poter vivere da nababbo è datata 1939.

Giulia, bella, esuberante, energica e cavallerizza (in anni che consentivano alle donne di stare zitte mentre accudivano ai lavori domestici) fu d’ispirazione per la protagonista dell’opera La fanciulla del West. Doria entrò nella Turandot mimando la figura di Liù che si lascia uccidere per amore. Non che – al di là di qualche turbamento – Puccini abbia mai pensato di smetterla di giocare con l’amore. Conobbe Corinne Maggia che la sospettosa Elvira indicò come «la torinese». La donna del momento era una ragazzina di 19 anni, l’aveva conosciuta in treno e il corteggiamento conobbe attimi di rara intensità. Lei finì per sposarsi con un insegnante di Biella perché i contatti con Puccini diventarono impossibili. Lui, alla guida della sua coupé, a 80 chilometri l’ora, era finito fuori strada con il risultato di rompersi una gamba.

Come il Don Giovanni della letteratura spagnola, ogni occasione era propizia per una nuova avventura. Quante? I biografi si sono impegnati a cercare tracce di infedeltà coniugale. Non è detto che i risultati debbano considerarsi definitivi. Josephine von Stengel, figlia di un ufficiale e moglie di un barone, arrivava a Viareggio e Puccini la ospitava nel cabinato che gli serviva per scorrazzare in mare. Rose Ader, invece cantava da soprano (probabilmente non di limpidissimo talento) ma, nonostante le raccomandazioni del «maestro» non ottenne scritture dignitose. Flirtò con Laurentina Castracane degli Anteminelli, che abitava nel palazzo «dalle cento finestre» e alla quale – parola del nipote – regalò la prima copia della Bohème. E s’incapricciò di Sybil Beddington Seligman della quale apprezzava «la dolcezza del carattere, le passeggiate nel parco, la melodia della voce e la bellezza raggiante». Per ciascuna – ma solo per il tempo dell’infatuazione – complimenti al superlativo. «Manchi te, colle tue forme, col tuo sorriso, colla tua bellissima persona, col fascino dei tuoi occhi». E, ancora: «Io ti adoro perché meriti di essere amata». Parola più parola meno, con tutte: «Mia sola e unica donna che io desideri al mondo».

Per ogni avventura occorreva impancare una sceneggiatura come se si fosse trattato di una regia teatrale. Agli amici chiedeva d’invitarlo (fintamente) per una battuta di caccia o per partecipare a qualche incontro di lavoro in modo da potersene andare da tutt’altra parte. «Ti prego di un favore» dice Puccini in una lettera a Riccardo Schnabl. «Io fra pochi giorni voglio vederla e fingerò una gita costì. Tu mi scrivi che mi aspetti. Quando poi partirò, io ti telegrafo in modo che tu possa a tua volta telegrafare a Elvira per dire “arrivato, bene”. Così posso rimanere fuori tre giorni. Capisci? Tre giorni di delizie». Oppure «aspetto da te un bell’invito da mostrare e che sia convincente». Per incontrare una donna in Svizzera, in tempo di guerra, passò la frontiera con documenti falsi. Fu scambiato per spia. E dovette mobilitare tutto il suo apparato di amicizie per venirne a capo e convincere i poliziotti che si trattava soltanto di un’avventura galante.

Le sue amanti dovevano spedire i messaggi alla «posta restante» di Viareggio ed evitare l’indirizzo di casa perché la moglie, utilizzando il vapore gli apriva la corrispondenza per scoprirne le tresche. Ma Puccini trovò il modo di volgere a proprio favore una debolezza tutta femminile. «Verrei volentieri da te ma occorre “lavorare” mia moglie. Perciò ricopia la lettera che ti allego e spediscila al mio indirizzo». Certo non andava sempre bene. Gli amici l’avevano anche «coperto» organizzando una battuta di caccia in Umbria ma qualche dettaglio aveva insospettito Elvira che, di nascosto, seguì Puccini spuntandogli alle spalle come il Fantasma dell’Opera con il risultato che «la fagiana fu spennata». Questa smania di aggiungere conoscenze e conquistare amicizie non lo mise al riparo dalla solitudine che, anzi, lo accompagnò anche quando stava in mezzo alla folla. Visse da inquieto, malsicuro di sé, diffidente e ipocondriaco capace di curarsi un’inesistente angina pectoris. Anche melanconico fino a coltivare strani pensieri auto-distruttivi. «Vivere a Torre» parole sue messe per iscritto, riferite al suo buen ritiro versiliese «è diventato insopportabile. Sto dicendo il vero quando dico che, spesso, ho accarezzato la mia pistola».

Però, se c’era da mettersi a tavola e banchettare, spuntava il ghiottone. S’inventò ricette per cucinare tordi e colombacci che abbatteva personalmente. Insegnò ai cuochi a preparare il riso con la tinca. E sulla cottura point delle folaghe si rivelò intransigente. Era dopo una cena soddisfacente che si sentiva in pace con se stesso. Poteva risultare anche ironico. Persino beffardo. Si sedeva al pianoforte restando sulla tastiera anche l’intera notte. Giusto qualche pausa per fumare, appoggiando gli occhi sul profilo del lago di Massaciuccoli. Certo aveva voglia di scherzare quando immaginò la conclusione della storia drammatica di Tosca, innamorata di Cavaradossi in prigione a Castel Sant’Angelo destinato alla condanna a morte. Lei si rivolge al capo degli sbirri, il barone Scarpia, per chiedergli grazia e lui ne approfitta per ricattarla «come giocattolo del piacere». Nessuna alternativa. E infatti la partitura della celebre opera del 1887, dopo l’insieme dei fiati, propone un «ebbene?» Nel silenzio, su un tappeto di note in «pianissimo», Tosca si accascia e «col capo accenna un “sì”, piangendo dalla vergogna, per affondare la testa fra i cuscini del canapè». La dinamica dell’opera prosegue con quattro tempi di silenzio, quindi due note «ascendenti»: «… la… do…».

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