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Anniversari: giugno 1944, la battaglia dimenticata

Anniversari: giugno 1944, la battaglia dimenticata

il recente anniversario dello Sbarco in Normandia ha celebrato la sconfitta del nazismo, dimenticando il colpo decisivo assestato dall’armata sovietica all’esercito tedesco. In un sanguinoso campo di battaglia che dall’Ucraina arrivò fino alle porte di Varsavia.


Se lo sbarco in Normandia del 6 giugno 1944, appena celebrato, ebbe esito favorevole per gli Alleati, lo si deve anche al fatto che i tedeschi dovettero dividere le loro forze per tre. In Italia avevano da fronteggiare le divisioni del generale Harold Alexander, acquartierate sotto il monastero di Montecassino, e quelle del generale John Lucas che, con azione indipendente, era riuscito a consolidare una testa di ponte ad Anzio. Ma a spaventare i contingenti di Hitler, furono, soprattutto, le armate sovietiche che, rinfrancate da dieci mesi di successi, non diedero tregua ai reparti di Berlino. I marines, sulle coste francesi a ovest, e i russi, all’assalto a est, formarono le braccia di una gigantesca tenaglia destinata a chiudersi per schiacciare i resti dell’esercito nazista. Si stava combattendo un’altra guerra. Come talora capita alle squadre di calcio che uscendo dagli spogliatoi, dopo il riposo fra il primo e il secondo tempo, giocano una partita di tutt’altro segno. Chi, nei primi 45 minuti, sembrava dover vincere facilmente, si ritrova senza energie e senza idee, mentre chi aveva tutta l’aria di subire una batosta epocale trova la forza per mettere gli avversari nell’angolo.

Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, i sovietici rimasero a guardare senza prendere parte alla coalizione che si oppose ad Adolf Hitler. Anzi, l’Urss e la Germania – per iniziativa dei rispettivi ministri degli Esteri Molotov e von Ribbentrop – siglarono un patto di non aggressione che comportò anche la spartizione della Polonia. Dopo l’esplosione del conflitto l’accordo resse un paio d’anni (scarsi), fino al 22 giugno 1941, e fu rotto – unilateralmente – da Hitler che, ormai padrone del resto dell’Europa, sentì di avere le forze sufficienti per sottomettere anche l’Unione sovietica. Gli Stati maggiore di Mosca furono presi alla sprovvista e, a tutta prima, non riuscirono ad arginare le divisioni Panzer che dilagarono, apparendo inarrestabili. Lasciarono 10 mila morti e altrettanti prigionieri sulla linea di difesa dell’Ucraina e, dopo la caduta di Kiev, altri 600 mila soldati furono costretti a consegnarsi ai nazisti. L’unica difesa praticabile consistette nel lasciare il campo alle armate di Hitler e ripiegare, utilizzando come alleati gli immensi spazi della steppa.

La ritirata si fermò ai sobborghi di Stalingrado. Fino a quel momento, avevano ceduto centinaia di chilometri quadrati di niente ma, a quel punto, si trattava di difendere i pozzi petroliferi e i giacimenti di Majkop. I tedeschi ne avevano bisogno perché, fra le loro armate, cominciavano a scarseggiare i rifornimenti. E i russi compresero che l’impedirglielo avrebbe avuto un valore strategico determinante. Iosif Stalin lanciò «l’ordine numero 227», in cui imponeva «Non un altro passo indietro!». Si sacrificarono in 500 mila ma sbarrarono la strada ai tedeschi. All’imbrunire del 31 gennaio 1943, il generale Friedrich von Paulus fu costretto a firmare l’atto di resa al nemico. L’ultimo assalto sovietico fu affidato a Konstantin Rokossovski, un generale polacco che, anni addietro, nel contesto di una delle tante «purghe» che arricchiscono la storia russa, era stato arrestato ma poi riabilitato fino a ottenere il comando di un’armata. Eseguì gli ordini con un ardore superiore allo zelo abitualmente assicurato tanto da essere indicato in senso elogiativo «il martello degli Unni». Lì si fermò l’avanzata tedesca e lì cominciò la controffensiva sovietica. Vennero liberate Kursk e Rostov sul Don, poi Kharkiv. Il 5 novembre 1943 i sovietici entrarono in una Kiev ridotta in macerie e partendo da quelle posizioni (fra il gennaio e l’aprile 1944) si ripresero una fetta di Ucraina e quasi interamente la Bielorussia. Nella primavera del 1944, l’Armata rossa si dedicò alla preparazione dell’ultimo atto della controffensiva che, nelle intenzioni, doveva mettere in ginocchio i nemici.

Stalin e lo Stavka – l’alto comando sovietico – immaginarono di assestare una serie di colpi lungo tutta la linea del fronte: da Riga, sul mar Baltico al nord fino a Odessa, nell’Ucraina del sud. Quello più poderoso venne riservato all’area centrale del fronte. Un risultato positivo, in quel punto, avrebbe spezzato in due lo schieramento tedesco, indebolendolo nel complesso ed esponendo al rischio di essere circondati entrambi i tronconi rimasti sulle ali. Quelle operazioni furono coordinate dal generale Georgij Žukov che affidò i comandi sul campo ai generali Ivan Konev e Rodion Malinowskij e il ruolo di responsabile politico a Nikita Krusciov, destinato – dal 1953 al 1964 – a ricoprire il ruolo di segretario generale del Partito comunista sovietico.

Per accumulare armamenti e materiale bellico vennero utilizzati 5 mila treni con 50 carrozze ciascuno che fecero la spola fra le retrovie e il fronte. Per offrire un’idea delle dimensioni dell’operazione, riuscirono ad ammassare un milione e mezzo di tonnellate di carburante, 900 mila tonnellate di munizioni e 150 mila tonnellate di derrate alimentari. All’inizio di giugno 1944, sei giorni prima dello sbarco in Normandia, i comandi dell’Unione sovietica ultimarono lo schieramento delle truppe. Su un fronte di poche centinaia di chilometri, posizionarono due milioni di soldati, quattromila carri armati e 25 mila cannoni. Per ogni chilometro, potevano disporre di 178 bocche da fuoco quando i manuali di strategia di allora assicuravano che un centinaio rappresentavano il massimo della potenza. Vennero posizionati su due linee parallele in modo da evitare pause negli spari. I cannoni della prima fila sparavano e, al momento di ricaricare, entravano in azione quelli che stavano dietro. Gli artiglieri erano in grado di creare un’autentica barriera di acciaio, generando anche un micidiale effetto psicologico.

E come la spia al soldo degli inglesi Juan Pujol García, alias «Garbo», riuscì a ingannare i tedeschi facendo loro credere che lo sbarco sarebbe avvenuto sulle spiagge di Calais, cosi i sovietici – con un’operazione di «disinformatia» indicata come «maskirovka» – ottennero che i nemici rafforzassero le difese molto più a sud verso il sud-ovest dell’Ucraina. Alcuni chilometri quadrati di steppa risultarono occupati da finti accampamenti militari e magazzini totalmente vuoti in modo che i nazisti ritenessero quelle posizioni come il trampolino di lancio della controffensiva. In quel modo, a difendere il fronte centrale rimasero 800 mila tedeschi nemmeno troppo preparati: facevano parte della cosiddetta «seconda leva» normalmente impiegata con compiti di polizia. Ad appoggiarli solo 500 unità tra carri armati e altri veicoli blindati. I tedeschi avevano perso il vantaggio dei numeri e della qualità delle forze in campo. E, in quelle settimane, si comportarono come Giano bifronte che guardava a occidente e a oriente in attesa di truppe da sbarco americane (per un lato) e di fanterie russe (dall’altro).

Temporalmente, lo sbarco in Normandia prese corpo prima, ma i reparti sovietici erano ugualmente pronti. Tennero impegnate le divisioni a est ed entrarono in azione il 22 giugno solo perché Stalin volle far coincidere l’attacco con l’anniversario dell’assalto a sorpresa di Hitler di due anni prima. L’operazione prese il nome di «Bagration» mutuando il nome evocativo del comandante militare che, nell’Ottocento, si oppose a Napoleone. La battaglia cominciò alle 5 del mattino e interessò i 690 chilometri presidiati dal Gruppo delle Armate del Centro. Alle 11, le linee difensive tedesche si trovarono scardinate. Nel varco che si aprì, s’infilarono le divisioni di Mosca puntando le città presidiate dai tedeschi. Il 24 giugno circondarono Vitebsk e costrinsero alla resa una guarnigione di 30 mila soldati. Il 26, entrarono nella città di Orsha e nei due giorni successivi occuparono Mogilev e Babrujsk. Non che i tedeschi si arrendessero senza combattere. Dimostrarono coraggio nonostante lo sconforto disperati più che convinti, impegnati a rispondere ai valori dell’onore cui non intendevano rinunciare. E, tuttavia, la superiorità sovietica non lasciò scampo e sembrò la riproposizione, al contrario, di quando i Panzer inseguirono i russi tallonandoli da vicino. In 50 ore dall’inizio dell’attacco, tra morti, feriti e dispersi, i reparti di Berlino lasciarono sul campo 300 mila uomini.

I carri armati sovietici raggiunsero la Romania e l’Ungheria. Entrarono in Polonia e si fermarono alle porte di Varsavia dove i partigiani dell’esercito clandestino tentarono di liberare la città con un’azione partita dall’interno della città. Non si comprende se con premeditazione o per qualche disguido di comunicazione, i sovietici che stavano a poche centinaia di metri dal bastione non intervennero e lasciarono che gli insorti fossero massacrati.

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