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Globalizzazione, falò delle nostre identità

Globalizzazione, falò delle nostre identità

La globalizzazione vanta oggi i suoi pentiti. Intanto, al grido «giù ogni barriera», economie e vite sono andate distrutte. Ma c’è chi, come al solito, ci ha guadagnato.


Ci avevate fatto credere che fosse un paradiso per tutti. E invece al massimo era un paradiso fiscale. E riservato a pochi. Per gli altri un inferno. E così criticare la globalizzazione all’improvviso è diventato di moda, quasi glamour: Persino i più accaniti globalizzatori ora criticano la globalizzazione. Lo ha fatto l’Economist la scorsa settimana. Lo ha fatto Mario Draghi. Forse qualcuno ha capito che la richiesta di protezione che avanza dal basso della società non è altro che una reazione di chi vede il suo mondo spazzato via da giganti alieni. E inevitabilmente si ribella. Lo chiamano populismo. Ma non è altro che istinto di sopravvivenza.

È forse populista il commerciante che lotta per non morire di fronte alla concorrenza sleale dei giganti come Amazon che dettano le leggi agli Stati e pagano le tasse dove e come vogliono? È forse populista l’agricoltore che lotta per non morire di fronte a chi usa la politica green per sostenere la produzione industriale del cibo, che conviene solo alle multinazionali? È forse populista il pescatore che lotta per non morire di fronte a chi gli invade il mercato (8 pesci su 10 sono stranieri) perché non è costretto a seguire le sue stesse vincolanti regole? È forse populista il piccolo imprenditore che lotta per non morire di fronte a chi gli fa le scarpe utilizzando lavoro minorile e condizioni di igiene e di sicurezza che lui, giustamente, non può e non deve applicare?

Sono populisti? O stanno soltanto cercando di non sparire? Mi spingo anche oltre, vado a toccare due categorie assai più invise: voi siete sicuri che siano populisti i taxisti che difendono il loro lavoro dai colpi sleali di Uber e simil Uber? Siete davvero sicuri che siano populisti i balneari che da generazioni gestiscono piccoli stabilimenti familiari e adesso dovrebbero cedere il passo alle multinazionali? So che entrambe le categorie non godono di grandi simpatie. So che i giornaloni li hanno trasformati nel grande nemico: è incessante l’attacco alle «pericolose lobby che ingessano il Paese». Ma davvero credete che le lobby pericolose siano quelle dei taxisti e dei balneari?

Continuano a prenderci in giro, come fanno da 40 anni e più. La globalizzazione, in effetti, si è rivelata per quello che era: un grande inganno usato per fottere i popoli e far guadagnare più soldi alla finanza. Che, non a caso, ha assunto un potere esorbitante, incontrollabile, più forte di ogni organizzazione politica. È una forza assoluta che controlla anche i grandi canali di comunicazione. E dunque è in grado di convincerci senza difficoltà che è necessario mettersi a mangiare insetti, finanziare con soldi pubblici la carne sintetica, farsi punture di vaccini sperimentali, sottoporsi a quintali di esami medici inutili (salvo poi non avere pronto soccorso funzionanti), comprare qualsiasi cosa imbecille con un clic, mettere le nostre vite sui social», abolire i termini mamma e papà e fare i bagni «gender neutral» perché non è vero che maschio e femmina Iddio li creò. Soprattutto è in grado di convincerci che dobbiamo rinunciare alla nostra identità perché l’identità è brutta e pericolosa.

A pensarci la globalizzazione non è altro che questo: un enorme falò delle identità. Per anni ci hanno detto che era inevitabile: chiunque osasse levare una parola contro il processo di abbattimento delle barriere, chiunque osasse avanzare un piccolo desiderio di protezione e tutela, è stato visto come un nemico del progresso. Uno scarto della storia. Ci hanno detto che era impossibile fermare la corsa verso gli scambi senza freni né limiti. Scambi di denari, di merci e ovviamente anche di persone. Se una persona starnutisce in Australia, ci hanno ripetuto per anni, vuol dire che c’è il raffreddore a Milano. Abbattiamo le frontiere. Abbattiamo i dazi. Abbattiamo tutto quello che ostacola il vortice unificante della globalizzazione.

Eppure non sarebbe stato difficile capire che abbattere le frontiere significa abbattere gli Stati. E abbattere uno Stato significa abbattere una civiltà. Non sarebbe stato difficile capire che da sempre le civiltà si sono difese con le mura. Non sarebbe stato difficile capire che le mura vanno salvaguardate, non abbattute, perché dentro una casa senza mura nessuna famiglia si sente sicura. Non sarebbe stato difficile capire che se qualcuno starnutisce in Australia, forse a Milano anziché prendere il raffreddore è meglio mettersi una maglia di lana. «Se c’è freddo, copriti», le mamme lo dicono da sempre. Invece no: di fronte alle intemperie non ci siamo coperti, ci hanno lasciati nudi, con il sedere all’aria, con il petto esposto, infilzati da tutte le parti e guai a chi chiedeva protezione.

Non è vero come dicono Draghi, l’Economist e gli altri tardivi pentiti, che la globalizzazione ha fallito. Al contrario: è riuscita benissimo nel fare quello che voleva fare. Solo che non aveva messo in conto l’umano istinto di sopravvivenza. Chi sta per morire infatti trova sempre una forza incredibile. E per fermarlo non basta bollarlo come populista a reti mondiali unificate.

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