Il tatuaggio un tempo era un simbolo di trasgressione e di ribellione (e se eri stato in carcere in effetti la trasgressione e la ribellione erano giustificate). Ma oggi il disegno sulla pelle è un modo per farsi accettare, una mania di massa, un simbolo degli anni Duemila. Di che cosa non si sa
Non è la moda dell’estate che sta finendo, ma purtroppo una moda che non finisce con l’estate e di cui, soprattutto a luglio e agosto, si vedono le conseguenze. Di che parlo? Dei tatuaggi. Nel Panorama in edicola, trovate un articolo di Stefania Fiorucci che rivela come l’Italia sia uno dei Paesi «più tatuati» del mondo: un disegno sulla pelle ce l’ha quasi un italiano su due, addirittura più di quanti cuori, gabbiani, serpenti e altre fantasiose riproduzioni compaiano su braccia, gambe, schiene e caviglie di americani e svedesi. Grandi o piccoli, neri o colorati, nascosti o ostentati: i tatuaggi sono diventati un simbolo degli anni Duemila. Di che cosa non si sa. D’amore? Forse. Di ribellione? Anche. Di modernità? Ma chi ha cinquant’anni pensa davvero di potersi dimostrare moderno mettendo in mostra un teschio o una spada sui bicipiti?
Non so dire quando sia iniziato il fenomeno, ma ormai è diventato di massa e sulle spiagge non si può non notarlo. Se prima al mare l’ostentazione si limitava ai seni e ai glutei, ora si esibisce il disegno e non si tratta di qualche cosa che riguardi solo i giovani, ma anche persone più su d’età. Sì, i ragazzi non vedono l’ora di avere un «ricamo» sulla pelle che certifichi la loro appartenenza a un gruppo oppure il legame con una persona. Ma come dimostra il servizio che pubblichiamo, l’età media della «prima volta» è di 25 anni e dunque si è già maturi, ossia in grado di valutare i pro, ma soprattutto i contro della moda di scrivere qualche cosa sul proprio corpo che ci renda speciali.
Confesso: il primo incontro con i tatuaggi lo feci 44 anni fa e non sottoponendomi a una seduta con un tatuatore, ma sentendomi chiedere di comprare inchiostro e pennino da un detenuto. Durante il servizio militare ero infatti stato destinato al reclusorio di Peschiera del Garda, dove venivano rinchiusi i disertori, i renitenti alla leva e chiunque avesse commesso un reato mentre indossava la divisa. Il mio compito era di chiudere le celle e di sorvegliare i detenuti durante l’ora d’aria. Un giorno mi si avvicinò un simpatico napoletano che era finito agli arresti per aver svaligiato l’armeria della caserma, nascondendo la «refurtiva» sotto un mucchio di sabbia. Lì dentro era considerato una specie di boss, un po’ perché aveva qualche anno in più dei compagni di cella e un po’ perché aveva un’aria da duro, con un curriculum da criminale vissuto. Da me voleva una boccetta di china e qualche pennino per disegnare un tatuaggio sul corpo di un altro detenuto. Si trattava in pratica di una specie di iniziazione al clan, fatta in maniera artigianale, per dimostrare l’appartenenza. Ovviamente, declinai la richiesta e racconto l’aneddoto per dire che parecchi anni fa il tatuaggio era un simbolo della «mala». Si scriveva sulla pelle il nome della donna lasciata fuori, oppure qualche cosa che richiamasse la gang a cui si apparteneva. O anche solo per dimostrare di essere finito dietro le sbarre. Diciamo che per molti ex carcerati era un segno di riconoscimento.
E adesso che cosa è? Nessuno lo sa. Secondo alcuni, sarebbe un modo per farsi accettare, cioè una specie di status symbol. Un ricamo per sembrare unici e speciali. Qualcuno addirittura scomoda l’arte, dicendo che si tratta di un nuovo modo di esprimersi e anche di rappresentarsi: il tattoo come un quadro. Altri invece parlano di una delle ultime forme di libertà assoluta. Una specie di autodeterminazione: il corpo è mio e ci disegno quello che voglio io. La realtà però è molto meno affascinante di come la si voglia presentare, perché alla fine, come spiega l’articolo di Fiorucci, i disegni spesso sono banali e anche malfatti e dunque dopo un po’ non soltanto perdono luminosità fino ad apparire sfuocati, ma spesso ci si pente di averli. Per non dire che esibire sul proprio corpo il nome di un amore finito male non è divertente e ogni mattina, appena svegli, il tatuaggio è lì, a ricordare la delusione. Ne sanno qualche cosa le star che corrono dai dermatologi a farsi cancellare o ritoccare la scritta, non sempre con esiti fortunati. Già, rimuoversi ciò che non si vuole più non è come cambiare acconciatura o colore di capelli.
Per una volta mi trovo d’accordo con lo psichiatra Paolo Crepet, il quale sostiene che il tatuaggio un tempo era un simbolo di trasgressione e di ribellione (e se eri stato in carcere in effetti la trasgressione e la ribellione erano giustificate). Ma oggi il disegno sulla pelle è un segno di conformismo. «Se vuoi provocare» conclude «scegli di non farlo».