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Quei talenti italiani, così brillanti, così incompresi

Quei talenti italiani, così brillanti, così incompresi

Siamo un Paese che sforna invenzioni e apre startup. Poi, però, non sappiamo alimentare un ambiente dove si possano sviluppare. E si finisce con la fuga delle intelligenze.


Ci sono molti dati che piazzano l’Italia ai primi posti nelle classifiche mondiali. Da sempre, infatti, oltre a essere un popolo di santi e navigatori lo siamo anche di inventori. Una volta si chiamavano solo invenzioni ora si chiamano anche «startup» e sorprende l’età veramente giovane, nei vent’anni, di coloro che escogitano queste realtà. Da un reportage al celebre Ces, la fiera mondiale dell’avanguardia tecnologica di Las Vegas, si apprende come fossero presenti ben 50 startup italiane nel cosiddetto Eureka Park. Le startup arrivano da 13 regioni diverse, la più rappresentata è la Lombardia, ma tante idee arrivano dal sud tra Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna. La provenienza di queste startup assai avanzate e molto tecnologiche la dice lunga sui luoghi comuni che riguardano il Sud, ma questo è un altro discorso.

Le invenzioni vanno dalla cuccia per cani autopulente che utilizza una tecnologia chiamata «biovitae» per sanificare il luogo dove l’animale riposa, a un’altra che controlla anche il suo stato di salute; un’altra ancora insegna a suonare la chitarra attraverso dei led che aiutano a capire dove posizionare le dita. Si arriva al cestino smart che riconosce i rifiuti e li smista, praticamente una raccolta differenziata automatizzata grazie all’intelligenza artificiale. Qualcuno potrebbe anche sorridere non capendo il lavoro intellettuale e creativo che sta dietro a queste invenzioni che fanno dell’Italia, in questi consessi tecnologici, una delle nazioni più interessanti. Da non dimenticare mai che nella stessa Italia spesso si alza il lamento a proposito dei giovani che non hanno idee e che quindi siamo destinati a un Paese senza futuro. Ecco, invece, questi giovani dimostrare esattamente il contrario, ivi compresi massicciamente quelli del Sud: le idee le hanno eccome, la loro parte l’hanno fatta, è semmai l’Italia che dovrebbe credere di più nei propri talenti piuttosto che lasciarli andare all’estero anche per questioni economiche, guadagnando un ricercatore italiano quanto guadagna un addetto alle pulizie senior. Detto, ovviamente, con tutto il rispetto dovuto a qualsiasi lavoro, ma considerando che non possiamo valutare tutti i mestieri con lo stesso metro di misura: alcuni devono costare di più e alcuni altri di meno altrimenti si genera quella eguaglianza farisea per la quale, alla fine, ci rimettono i più dotati e noi perdiamo talento e intelligenze.

Noi spendiamo fior di milioni per formarli per poi, da cretini puri, consegnarli chiavi in mano agli altri Paesi che godranno delle intelligenze e della produttività che noi stessi abbiamo pagato. Comunque sia questo dato è certamente un dato entusiasmante. All’ultima manifestazione di Las Vegas le invenzioni italiane hanno addirittura strabiliato. Le aziende e gli inventori italiani hanno depositato presso l’Ufficio europeo dei brevetti ben 4.864 domande (circa 400 al mese), secondo risultato più alto di sempre leggermente inferiore al record del 2021. È vero che l’Italia non ha molte materie prime, ma una di sicuro ce l’ha: la materia grigia ed in abbondanza, in grande abbondanza. Del resto, giusto per curiosità, la rivista Wired ha elencato cinquanta clamorosi e rilevantissimi esempi di invenzioni nate dall’italico genio. Si va dal Programma 101 Olivetti (precursore del PC) inventato nel 1965 da Pier Giorgio Perotto, alla matita meccanica Aurora del 1924, prima ancora il polipropilene isotattico di Giulio Natta nel 1954, il telefono di Meucci nel 1871, il cono gelato di Italo Marchioni del 1896, i moon boot della Tecnica 1970, il sismografo elettromagnetico di Luigi Palmieri del 1852, il cambio per le biciclette del notissimo Tullio Campagnolo del 1935, la scala Mercalli dal nome dell’inventore Giuseppe Mercalli del 1902, la carta carbone di Pellegrino Turri del 1806, per concludere con il reattore nucleare di Enrico Fermi del 1942. Ce n’è abbastanza per capire le radici di questo fenomeno e per chiudere la bocca di qualcuno che, eventualmente, l’aveva aperta leggendo queste cose che non sapeva.

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