Nel febbraio di 170 anni fa, il «connubio» di governo tra Camillo Cavour e Urbano Rattazzi, tra destra e sinistra, è la prima di coalizioni «a ogni costo» a dispetto di programmi elettorali, identità politiche e voto popolare. Una lunga serie che continua.
Quel «connubio» fra Camillo Benso conte di Cavour e Urbano Rattazzi che, nel febbraio 1852 – giusto 170 anni fa – ribaltò il governo del Parlamento subalpino e presentò una maggioranza inedita non è un esempio virtuoso di lungimiranza politica (come ancora lo si presenta nei libri di scuola) ma l’avvio del malcostume impersonato dai voltagabbana e dei giri di valzer dei partiti di casa nostra.
I dicasteri «balneari», quelli «ponte» e le edizioni di «unità nazionale», le coalizioni senza maggioranza reale, i premier che non si erano nemmeno presentati alle elezioni e i governi «tecnici» vengono da lì. Se tutto questo espropria il voto dei cittadini, con un deficit di democrazia, occorre risalire al Risorgimento.A guardarla con occhiali senza lenti deformate dall’ideologia, la storia non inganna. Dunque, dopo il fallimento rimediato sui campi di battaglia con la prima guerra d’indipendenza (1848 e 1849) e dopo due tornate elettorali, si affermò una coalizione che le cronache storiche definirono della «destra storica».
Il leader era Massimo d’Azeglio il quale – non esistendo la politica come professione – si occupava di dipingere, comporre poesie, scrivere tragedie e ammirare la gambe delle ballerine del «bar tabarin». Era abbastanza capace in tutto, pur senza riuscire a eccellere in qualche cosa. Si trascinava in una sorta di crisi depressiva che, allora, non era una malattia contemplata nelle discipline mediche, dunque inesistente e perciò incurabile. Però chi ne soffriva, a dispetto dei cataloghi sanitari, si trovava con un carattere che, incline al pessimismo, sfociava facilmente nella melanconia.
Nel caso di Massimo d’Azeglio, gli faceva assumere un atteggiamento annoiato tanto da renderlo apatico, quasi, indifferente per quello che capitava intorno. Perciò, assisteva al dipanarsi delle polemiche letterarie, contribuiva al dibattito parlamentare, partecipava (per certi versi, da protagonista) a costruire gli scenari di un futuro tricolore ma lo faceva senza entusiasmo. Anzi: con quell’aristocratico distacco che gli impediva d’inorgoglirsi oltre misura se veniva nominato presidente del Consiglio e lo lasciava abbastanza indifferente quando lo trombavano senza che fosse stato responsabile di disastri ministeriali. Come uno spettatore, invitato ad assistere a una recita teatrale che, trovando lo spettacolo vagamente inconcludente, un po’ segue la trama e un po’ si fa distrarre da pensieri estranei.
A fargli le scarpe s’incaricò Camillo Benso conte di Cavour che, di carattere e per atteggiamenti, poteva essere il suo rovescio. Si sentiva animato dalla frenesia di arrivare. E di arrivare in fretta. I libri di scuola si sono incaricati di consolidargli il titolo di «tessitore» e, certo, non gli mancò l’astuzia politica, la diplomazia intrigante, persino la risolutezza bugiarda che, non di rado, gli consentì – mentendo – di sostenere l’insostenibile. Era piccolo, tracagnotto, miope, con la faccia che pareva un melone acerbo, indispettito perché si vedeva crescere la pancia a dismisura eppure incapace di rinunciare alle tre portate per pasto che si faceva servire al celebre ristorante Cambio.
Nessun dubbio che, nel governo d’Azeglio, l’emergente fosse lui. Era un «secchione» che studiava i dossier con cura certosina e, in Parlamento, era in grado di chiedere la parola anche sette-otto volte sullo stesso argomento per contendere la più insignificante delle obiezioni. Partendo dal ministero per Agricoltura (con quello della guerra, era di gran lunga il più importante) finì con l’allargare le proprie competenze a dismisura e, tagliando l’erba sotto i piedi dei concorrenti, sgomitò finché non riuscì a soffiare il posto a d’Azeglio. Il cambio della guardia non risultò indolore. Cavour ce l’aveva fatta a sedersi sulla poltrona di presidente del Consiglio ma, una volta diventato il numero uno della compagine ministeriale, si organizzò in modo da crearsi una sua corrente politica di fedelissimi. Non gli piacevano alcuni compagni di strada «moderati» che pure erano stati eletti nel blocco di cui lui faceva parte.
Avrebbe preferito allearsi con gli uomini di Urbano Rattazzi (stavano all’opposizione con l’impegno di contrastarlo) e a loro faceva l’occhiolino. Si mandarono messaggi sempre più espliciti, s’incontrarono in segreto e fecero incontrare i rispettivi capigruppo. Il reciproco avvicinamento non passò inosservato. Venne rivelato, senza equivoci, in seguito a una serie di votazioni nel corso delle quali un gruppo consistente della minoranza si trovò a votare con i cavourriani della maggioranza. Impossibile continuare a nascondere. L’onorevole Ottavio Thaon di Revel s’incaricò di togliere l’ultimo velo all’ipocrisia parlamentare. «Io» esordì, con sarcasmo «rispetto le opinioni di tutti ma, appunto perché ne ho una mia, la dico… Questo voto indica che il governo ha cambiato politica e ci annuncia un nuovo connubio». «Connubio» è un termine che ha avuto fortuna, entrando nella storia per la porta principale, con una quantità di commenti positivi a proteggerlo. Ha indicato l’operazione politica che lo aveva caratterizzato presentandola come la scelta lungimirante di uno statista di rango. In realtà «connubio» era una brutta parola che, anche se non detto esplicitamente, sottintendeva l’aggettivo «carnale». E «connubio carnale» significava fare l’amore ma non quello lecito, coniugale e rispettato, quanto piuttosto quello che aveva luogo con le donne di malaffare. Le parole di Thaon di Revel («avete fatto un connubio») avevano un sottotesto diverso e andavano intese come un atto di accusa: «Siete prostitute che si vendono e si comprano».
Il costume di stracciare gli impegni assunti con i cittadini nel corso della campagna elettorale cominciò in quel 1852, nel cuore del «decennio di preparazione» nel corso del quale l’allora regno Sabaudo si preparò a diventare Italia che, una volta fatta, si ritrovò anche qualche eredità scomoda destinata diventare costume. Il Parlamento ha dovuto prendere atto delle giravolte di chi chiedeva il voto, promettendo di comportarsi in un certo modo, per cambiare idea e praticare tutto l’opposto.
I governi a maggioranze «variabili» sono diventati abitudine. Agostino Depretis, nel 1882, scoprì il «trasformismo» che consisteva nell’ottenere l’appoggio di chi era stato votato per dargli addosso. Francesco Crispi che era cresciuto con le stimmate dell’uomo della sinistra ma che cominciò a praticare gli atteggiamenti della destra, ritenne – per questo – di avere maturato il diritto al voto di tutti. Siamo nel 1892-93. E Giovanni Giolitti, dopo di lui, riscoprendo i valori di una politica senza appartenenze, capeggiò a lungo i «governativi» che significava stare in maggioranza «a prescindere».
L’opposizione non pagava e non era conveniente frequentarla. Il potere era distribuito come il dividendo di un’azione. Che valeva finché la società stava in piedi. Chi poteva avere interesse a sfasciare una Spa che distribuiva appalti, lavoro, utili e guadagni? In tutto il mondo, le maggioranze di governo si presentano agli elettori, elencando quanto sono riuscite a realizzare nel corso del mandato parlamentare. Se la bontà delle loro azioni risulta convincente, ottengono i consensi per continuare nell’azione politica: altrimenti vengono sconfitti alle urne, altri succedono loro al governo mandandoli all’opposizione da dove ricominciano daccapo per riconquistare le posizioni perdute.
In tutto il mondo ma non in Italia, dove le alleanze – anche in contraddizione con i programmi annunciati – si sono sempre realizzate nel cuore della legislatura, chiedendo solo alle elezioni successive una sorta di ratifica che, opportunamente preparata, è quasi sempre venuta. Quando mai la Democrazia cristiana ha chiesto alla sua gente il via libera per un centrosinistra aperto ai socialisti? Quando si è fatta autorizzare ad accettare il sostegno dei comunisti? E quando – fra tutti – hanno avuto il consenso Mario Monti, Giuseppe Conte, fino a Mario Draghi, per dare vita a governi tecnici? Uniche eccezioni: le soluzioni parlamentari che si sono determinate in seguito alla marcia su Roma dei fascisti di Mussolini e all’inchiesta del pool Mani pulite. Eventi straordinari, come sarebbe l’infarto per una persona fisica. Ma se l’ordinario sta nel cambio delle casacche e delle giravolte politiche, come mai Cavour, inventore dell’universo dei «voltagabbana», è considerato uno statista? Anzi: il principe?