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La mostra: Caravaggio in viaggio dalla luce al buio

La mostra: Caravaggio in viaggio dalla luce al buio

La mostra evento che riunisce, a Roma, 24 capolavori traccia l’intera traiettoria di Michelangelo Merisi. Il genio in cui l’arte rispecchia la biografia, l’inquietudine la necessità espressiva.

«Buongiorno prof, ho intercettato questo dipinto, ho un magnate dell’antiquariato che preme per l’acquisto a cifre significative, sto cercando di capire perché. Io avrei individuato un giovane Mattia Preti…». Così l’amico Antonello Di Pinto, il 25 marzo 2021, mi segnalava un Ecce Homo con una quotazione di partenza di 1.500 euro a una vendita Ansorena a Madrid, allegando un’immagine da cui capisco subito che si tratta di un Caravaggio. Provo a muovermi sottotraccia e come me altri, tanto da indurre proprietario e Stato spagnolo a bloccare la vendita quando molti dei maggiori conoscitori di Caravaggio si erano ormai associati al mio parere. 

Se oggi quell’Ecce Homo, aggiunta più recente al catalogo certo dell’autore, poi acquistato a prezzi adeguati da un privato che lo ha messo a disposizione del Prado, restaurato e schiarito rispetto a come appariva da Ansorena risultando ancora più convincente di allora, è probabilmente l’attrazione maggiore della mostra Caravaggio 2025 (Galleria Nazionale d’Arte Antica/Barberini, Roma, a cura di Maria Lusia Terzaghi Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon, fino al prossimo 6 luglio), è per via di una scoperta la cui storia, come spesso avviene, è nata al di fuori delle cerchie accademiche che se ne sono poi impadronite.

Di questa parata giubilare di una ventina di «tutti Caravaggio», si potrebbe potrebbe eccepire su due opere. Su un’opera di casa, il Narciso, per il quale ancora si resiste a perplessità critiche non certo infondate, sfociate a suo tempo nell’attribuzione di Gianni Papi allo Spadarino, e forse su uno degli esemplari del Mondafrutto, quello delle collezioni reali inglesi che di Caravaggio ha certamente l’invenzione, chissà fino a che punto anche la mano). In ogni caso, la mostra presenta l’evidenza di una cifra stilistica manifestasi secondo caratteristiche inequivocabili anche nella diversità dei periodi espressivi, e non confida naturalmente solo sulla presenza dell’Ecce Homo, cui ho dedicato un saggio, nell’imminenza della scoperta, nell’estate del 2021, Ecce Caravaggio. Da Roberto Longhi a oggi (La nave di Teseo). Partirei dalle opere straniere, visto che le si vede più difficilmente delle italiane. Di alcune di esse abbiamo in Italia presunte repliche o copie, come il San Francesco in estasi oggi a Hartford, idillio mistico al chiaro di luna di cui esiste un gemello ai Civici musei di Udine, provenuto ugualmente dal finanziere genovese Ottavio Costa. Costa richiese a Caravaggio anche altre due opere in mostra, il San Giovanni Battista oggi a Kansas City, di ispirazione per i primi caravaggeschi francesi a Roma, e la Giuditta e Oloferne, fra i più noti dipinti della galleria ospitante che ha passato indenne la «tempesta» della scoperta a Tolosa, nel 2014, di una variante comunque notevole.

Roberto Longhi, il maggiore interprete del Merisi, poteva pure considerare Caravaggio pittore da «una volta soltanto», ma nulla più della copia potrebbe testimoniare la fortuna di un’opera.  E, in fondo, non sarebbe stato ozioso, anche nell’ottica chiarificatrice della mostra, proporre il confronto ravvicinato fra le due estasi francescane così come si sarebbe potuto fare anche col Mondafrutto, un «doppio» del quale, quello della Fondazione Longhi a Firenze, fece affermare a Mina Gregori che «questa sia l’opera da cui ha inizio la nostra conoscenza del Caravaggio a Roma». La mostra insiste sul periodo romano di Caravaggio, in particolare nella fase in cui è legato al cardinale Francesco Maria del Monte.  Si inizia da capolavori giovanili ancora «chiaristi» come i celebri Bari giunti a Fort Worth nel 1987, che è la pietra miliare di una neonata pittura di genere che, nell’arguzia con cui rappresenta il soggetto popolare, cerca di guadagnarsi le credenziali per essere giudicata opera di caratura intellettuale. 

Si prosegue con altri in cui l’accentuazione dell’ombra, che in prima istanza rimanda al sentimentalismo di Giorgione come già si era accorto Federico Zuccari nel commentare le tele fatali della Cappella Contarelli, diventa protagonista assoluta della scena. Dell’ombra e non del buio, come molte opere eccessivamente inscuritesi farebbero credere: si notino in merito le teste di puro tocco che i restauri hanno fatto riemergere nello sbrigativo, ma commovente Martirio di Sant’Orsola delle Gallerie d’Italia a Napoli, in conclusione della parabola di vita dell’artista. Lo vediamo anche in due dipinti coevi già appartenuti ai Barberini: la criptica Marta e Maddalena, oggi al Detroit Institute of Arts, e l’eclatante Santa Caterina d’Alessandria, che i Thyssen-Bornemisza hanno portato da Castagnola di Lugano a Madrid, nei quali l’iconografia sacra viene reinventata sulla scorta dell’invito del cardinale Cesare Baronio, promotore dell’archeologia cristiana, a confidare più sulla credibilità della storia che sulle fantasie delle leggende. 

Un invito che la poetica del vero di Caravaggio accoglie perfettamente, calando la storia in una dimensione di eterno presente nella quale la società dimessa è il più evangelico bacino di provenienza anche di principesse come Caterina. Ciò che si perde in lignaggio lo si guadagna nella nobiltà della forma, di cui la luce contrastata risalta le regolarità tendenti all’ideale. Si capisce perché Vincenzo Giustiniani, collezionista che dopo Del Monte diventa il principale di Caravaggio, ma anche oculato critico d’arte, ritenesse Caravaggio non meno classico del maestro classico per eccellenza, Annibale Carracci.

Troppo ci sarebbe da dire sugli altri capolavori in mostra. A vederla da vicino, la formidabile Cattura di Cristo di Dublino, riconosciuta nel 1990 da Sergio Benedetti, conferma di essere l’unica considerabile autografa, malgrado i recenti tentativi di individuarne un’altra sullo stesso piano. I ritratti di Maffeo Barberini e Antonio Martelli mostrano come Caravaggio si sia evoluto nel genere, trattando dapprima l’effigiato come una natura morta, per poi concepire un’introspezione psicologica che recupera il senso di un’umanità viva. Chiuderei con le opere di Scipione Borghese, fondamentale nel lanciare la moda dei dipinti a lume di fiamma, giunto a fare arrestare pretestuosamente il Cavalier d’Arpino per appropriarsi dei suoi Caravaggio. Volendo ottenerne il ritorno a Roma, Caravaggio dovette inviargli da Napoli, fra gli altri, il David con la testa di Golia che sfida, con uno scatto estremo di orgoglio, il dipinto Aldobrandini fra i più lodati del Cavaliere, suo vecchio capobottega. Ma è un cospargersi di cenere, nella spada con cui un David intristito ha mozzato la testa, un ritratto dell’autore, si leggono le sigle del motto «humilitas occidit superbiam». L’opera arriverà a Roma, non Caravaggio, morto prima di giungervi.

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