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Michelangelo e la «Creazione» di un capolavoro

Michelangelo e la «Creazione» di un capolavoro

Nel suo nuovo libro dedicato al Buonarroti – un genio all’incrocio tra scultura, architettura e pittura – il critico di Panorama ne analizza anche l’opera più stupefacente: la Cappella Sistina.


Giorgio Vasari, nelle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori, afferma che Michelangelo è il punto di arrivo della civiltà toscana, che ha i suoi primi campioni in Cimabue e Giotto. Michelangelo nasce per «cavarci di tanti errori», per rendere perfetta l’arte moderna iniziata da Giotto, che ha il suo luogo eletto a Firenze. Nessun pittore è arrivato così in alto come Michelangelo nella Cappella Sistina, così come nessun artista è riuscito a realizzare, attraverso la pittura, un paradiso o una dimensione in grado di rappresentare la grandezza di Dio e la sua superiorità sull’uomo. Nella Cappella, che prende il nome da Sisto IV, avviene qualcosa che trasforma la vita di Michelangelo, già noto architetto e grande scultore. Egli non si sente ancora pittore, e comunque non tale da affrontare la volta della Cappella Sistina e da gareggiare con tanti illustri maestri. Eppure qui, in questa volta, non solo lo diventa, ma realizza altresì l’opera che lo consegnerà alla storia.

Per questa ragione, forse, Michelangelo esitò ad accettare la commissione di papa Giulio II, anche se infine dovette capitolare. Nella Cappella Sistina, Michelangelo si trova davanti a una situazione molto complessa. Per prima cosa c’è la difficoltà tecnica dell’«affrescare», ossia del dipingere con i colori sopra l’intonaco fresco che, asciugando, «ingloba» il colore creando una struttura molto più forte rispetto alla pittura «a secco», cioè realizzata come se il muro fosse una tela. Con questa tecnica, il pittore è costretto a compiere una parte della sua impresa entro una giornata, ovvero il periodo di tempo che occorre all’intonaco per asciugare.

La seconda difficoltà che Michelangelo incontra è quella, come lui stesso dice, di lavorare a «cervice riversa»; cioè, dopo lunghe giornate a meditare sui disegni fatti a terra, di doverli portare e applicare alla volta, stando per ore sdraiato sulla schiena, una posizione opposta rispetto a quella normale di un pittore che lavori al cavalletto o su una parete verticale. E va aggiunto che dovette lavorare sempre con poca luce naturale e con l’aiuto di candele e lampade. Nonostante queste difficoltà, Michelangelo riuscì a mantenere l’equilibrio monumentale ed epico di un’opera che – altra caratteristica dei cicli ad affresco – si sviluppa dall’alto in basso, cioè partendo dalla volta e via via scendendo, in una cronologia che, in questo caso, riproduce in gran parte quella del soggetto: la Creazione». C’era un ulteriore problema di ordine pratico: come raggiungere la volta. Il papa, piuttosto deciso, impaziente e sbrigativo, pensò di rivolgersi a Bramante, il quale progettò un’impalcatura che Michelangelo, da architetto qual era, decise di cambiare radicalmente. Progetta e realizza una impalcatura, senza toccare le mura, e inventa un modo per dipingere che farà scuola per i pittori a venire.

Michelangelo dipinge dunque la volta della Cappella Sistina a cervice riversa, da sotto in su, per quattro anni. Un’impresa titanica, nata nel confronto e nello scontro con Giulio II, che ha grande considerazione per l’artista, ma anche una personalità molto forte. Per lui nel 1505 Michelangelo già pensa al monumento funebre, che porterà a termine in un arco di tempo di quasi quarant’anni e doveva inizialmente essere posto dove oggi si trova il baldacchino del Bernini nella basilica di San Pietro, dunque in una posizione di assoluta centralità. Ciò non accadrà, ma comunque i papi che verranno dopo Giulio II non revocheranno la committenza di quest’impresa a Michelangelo. Michelangelo avrebbe voluto ancora fare degli interventi a secco, ma l’impazienza del papa non glielo permise, quindi dovette cedere e «consegnare» l’opera. Per quanto i tempi fossero contrari al suo perfezionismo, l’impatto della volta fu clamoroso tra i contemporanei e tra i posteri. Già Vasari commentò ammirato che «Michelagnolo fece al Papa nella Cappella quel rumore, e paura». Quasi tre secoli dopo, Goethe nel suo Viaggio in Italia scrisse: «Senza aver visto la Cappella Sistina non è possibile formare un’idea apprezzabile di cosa un uomo solo sia in grado di ottenere».

La frase di Goethe è l’eco di quanto annota in un altro passo sempre Vasari: «E così [Michelangelo] del tutto condusse alla fine perfettamente in venti mesi da sé solo quell’opera senza aiuto pure di chi gli macinassi i colori». Michelangelo, infatti, dopo una sola prova, decise di non avvalersi di alcun aiuto, di fare tutto da solo, persino macinare i colori. E tanto era geloso della sua opera che a nessuno era permesso di entrare nella Cappella, neppure al papa. Un’impresa grandiosa, dunque, come fu chiaro già ai contemporanei. Un nuovo mondo. Tutti gli artisti andarono in pellegrinaggio ad ammirare gli affreschi. Oltre a Raffaello, che ne fu particolarmente influenzato, sotto quella volta furono Perin del Vaga, Rosso Fiorentino, Pontormo, Domenico Beccafumi. Non mancarono tuttavia le critiche, soprattutto all’epoca di papa Adriano VI, che, in anticipo sui tempi della cancel culture, ricorda Vasari, «già aveva cominciato […] a ragionare di volere gettare per terra la cappella del divino Michelagnolo, dicendo ell’era una stufa d’ignudi. E sprezzando tutte le buone pitture e le statue, le chiamava lascivie del mondo, e cose obbrobriose et abominevoli».

Le sculture che Michelangelo immaginava come coro della tomba di Giulio II sono concepite, quasi come una premonizione, per popolare la volta della Sistina, che è sì dipinta, ma con forme così ampie, forti e plastiche che sono, come nel Tondo Doni, piuttosto «sculture dipinte». La volta c’era già, era già dipinta, ma la sensibilità del tempo non prevedeva rispetto per quanto era stato fatto prima. Sulla parete della Scuola di Atene c’erano affreschi di Piero della Francesca, sicuramente importanti ma «superati» dall’evoluzione del gusto, destinati a essere coperti dall’affresco di Raffaello. Pina Ragionieri – una delle più significative personalità del Novecento fiorentino, distintasi specialmente nell’incarico di direttrice di Casa Buonarroti e scomparsa nel 2019, a 92 anni – ha descritto efficacemente la «ratio» dell’impresa e ci offre uno sguardo d’insieme sulla composizione della cappella: «L’architettura dipinta divide verticalmente la volta in tre grandi fasce: in alto Michelangelo raffigura, in riquadri di varie dimensioni, nove scene tratte dalla Genesi: tra queste, l’episodio forse più famoso al mondo fra le invenzioni dell’arte figurativa, la Creazione di Adamo; ai lati delle scene più piccole, giovani Ignudi tengono tra le mani medaglioni che simulano il bronzo, con altre storie bibliche. Appena più in basso, nella seconda fascia, siedono su troni i Profeti e le Sibille, cioè i Veggenti che preannunciarono la venuta di Cristo. Nella terza fascia, composta dai triangoli e dalle lunette, stanno gli Antenati di Cristo; infine, nei pennacchi laterali, quattro episodi della lotta di Israele contro i nemici del popolo ebraico, con i rispettivi protagonisti: David, Mosè, Giuditta, Ester. La decorazione della volta avvenne in due fasi: dall’estate del 1508 a quella del 1510 fu realizzata la prima metà dell’opera, fino alla Creazione di Eva inclusa. Michelangelo comincia a dipingere dalla porta della Cappella in direzione dell’altare, in modo da permettere, per la parte iniziale dei lavori, la prosecuzione dell’attività liturgica. Per questo le scene dipinte per prime sono iconograficamente le più tarde; si risale cioè, nell’esecuzione, dalle Storie di Noè a quelle della Creazione. Nella continuità dell’architettura dipinta che sostiene l’opera intera si assiste, nella seconda fase, a un progressivo aumento di drammaticità, intanto che crescono le dimensioni dei personaggi».

Il disegno, pur se finalizzato alla pittura, è il fondamento della scultura, e ogni animata presenza dipinta deriva da un pensiero che ha la sua prima trascrizione nel disegno, veloce e immediato. L’attenzione dedicata ai fogli con i disegni per la Sistina è stata per lungo tempo occasionale. Una miniera di prime idee, certamente numerosissime per una impresa preceduta da un lungo travaglio grafico, di cui rimangono poche decine di schizzi. Michelangelo infatti distruggeva i propri disegni, perché non restassero progetti non compiuti. In tempi recenti, prima Pina Ragionieri e più recentemente Cristina Acidini hanno continuato a studiare e a ordinare il corpus di disegni autografi a Casa Buonarroti, 75 dei quali con soggetti di figura fra i quali quelli per la Sistina. L’imposta della volta si popola così di Sibille e Profeti dalla grande potenza plastica, a partire dalle sibille Libica, Delfica ed Eritrea, concepite come macchine sceniche. Ogni dettaglio concorre a rendere la potenza di queste figure, statuarie, scolpite, alcune delle quali anticipano il Mosè in pittura. Una sola cosa da un lato ci conforta e dall’altro ci mette in uno stato di inquietudine. Sentimenti che manifestai quasi trent’anni fa, quando, terminato il restauro nel 1994, salii su un’impalcatura e vidi questi colori puri, forti, potenti. Ricordo che, quando la visitai da giovane, la Cappella Sistina era come coperta da un fumo, quasi offuscata da una nebbia. Quella dimensione così misteriosa è stata da alcuni storici ed esperti rimpianta, perché si è ritenuto che gli affreschi avessero perso parte del colore. È una polemica che hanno acceso il pittore Balthus e James Beck, contrari alla pulitura che – a loro parere – avrebbe rimosso la sporcizia, che era sporcizia di candele, di fumi. È stato loro obiettato che sono gli stessi colori del Tondo Doni. Ma l’affresco ha una genesi diversa: una volta asciugato l’intonaco, il pittore opera interventi a secco, che però si rivelano molto più fragili, come la vicenda del Cenacolo di Leonardo insegna.

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