È qui che l’Italia, nel 1917, dopo la disfatta di Caporetto, fermò le truppe austriache con un altissimo tributo di sangue dei nostri soldati. E sempre qui, con battaglie violentissime, si ribaltarono le sorti della Grande guerra. Un nuovo libro fa da guida a questi luoghi sacri, troppo spesso ignorati.
Per sentieri da scoprire e fra i fantasmi della storia. I 42 itinerari sul Monte Grappa, il libro-guida appena pubblicato da Giovanni Carraro (Ediciclo) rappresentano l’invito ad attraversare una terra ancora intatta e – contemporaneamente – a rinnovare le memorie del Primo conflitto mondiale. Qui, nel 1917, l’esercito tricolore rischiò di venire definitivamente travolto ma – qui – dette prova di una tenacia superiore alle avversità e tenne duro fino ad averla vinta. A caro prezzo. Ci restarono almeno 12 mila soldati, la maggior parte dei quali dispersi. Ancora di recente, a Seren, vennero trovati otto corpi di militari vittime della Grande guerra e, sul Col di Lana, il teschio di un alpino.
In quel 1917 (24 ottobre) i contingenti austriaci con i tedeschi erano riusciti a sfondare la prima linea delle trincee italiane, provocando il crollo dell’intero sistema difensivo. In una guerra che, per anni, aveva vissuto movimenti minimi, in spazi ridottissimi, si trovò alle prese con un assalto che coprì 150 chilometri di territorio. Fu Caporetto. I nemici ad avanzare – quasi correndo – senza incertezze e i reparti di casa nostra costretti a ritirarsi in totale confusione. I soldati erano rimasti senza comandanti perché chi aveva maggiori responsabilità gerarchiche aveva abbandonato il campo prima degli altri. «Fuggivano i comandi e le clientele». Kurt Suckert – più conosciuto con lo pseudonimo di Curzio Malaparte – non si trattenne dallo sbeffeggiare generali e comandanti. «Fuggivano gli adoratori dell’eroismo altrui» insistette, «i fabbricanti di belle parole e i decorati delle zone temperate. Fuggivano i napoleoni dello Stato Maggiore, gli organizzatori delle difesa arretrate, i monopolizzatori del coraggio negli angoli morti e nelle retrovie». Le difese costruite con il cemento e quelle naturali dei fiumi vennero scavalcate con facilità indisponente. L’ultimo ostacolo, prima della Pianura padana, era rappresentato dal Monte Grappa; superarlo significava aprire le porte della strada verso Milano. Perciò le prime due battaglie sui contrafforti (14-26 novembre e 11-21 dicembre) ebbero importanza strategica cruciale.
Gli austriaci e i tedeschi ci arrivarono con motivazioni appannate dal successo. Per un verso, sentivano la stanchezza per lo sforzo compiuto e, per altro, forse già appagati dal raggiungimento di un risultato imprevedibile, avevano consumato buona parte dell’aggressività delle prime ore. Come un’onda del mare che ancora lascia acqua sulla spiaggia ma senza la forza d’urto che l’aveva portata fino a quel punto. Il generale Alfred Krauss suggerì di riproporre la tattica utilizzata per sfondare a Caporetto: fare infiltrare i contingenti di soldati lungo le valli senza curarsi dei reparti che presidiavano le cime della montagna. Il Monte Grappa sembra una mano destra orientata verso nord con le dita tenute larghe fra loro. Bastava scegliere una direttrice e seguirla, senza affrontare i nemici ma con il solo obiettivo di attraversare il massiccio e passargli dall’altra parte. L’operazione non era esente da rischi. Intanto, quella manovra non sarebbe più stata una sorpresa. E poi i fianchi delle vallate – abbastanza stretti – consentivano una difesa italiana assai più efficace tanto da dover mettere nel conto un numero non insignificante di vittime. Per questo lo Stato maggiore accampò difficoltà e obiezioni. Perdendo tempo a discutere, gli austriaci persero anche quello dell’iniziativa.
In forze presero d’assalto punta Cismon, monte Tomatico, Roncone e Prasolan (prima) e (poi) le gobbe di Fontanasecca, Spinocia e Salarolo ma non riuscirono a superare la resistenza italiana. In realtà era la guerra che aveva cambiato faccia. Le mitragliatrici che vennero impiegate per la prima volta in questo conflitto favorivano la difesa a scapito dell’attacco. Così erano stati i reparti tricolore che, per conquistare le trincee nemiche, si trovavano allo scoperto sotto un fuoco battente. Sul Monte erano invece gli austriaci che dovevano avanzare verso posizioni presidiate. E poi, fino ad allora, gli italiani non capivano perché dovessero sacrificarsi per conquistare qualche chilometro quadrato di pietroni del Carso. Da quel momento, non fu necessario sollecitarli con motivazioni un po’ artificiali. Ognuno capiva benissimo da sé che, su quel lembo di nuova frontiera, proteggeva casa propria. E cambiarono le condizioni generali degli eserciti. Gli italiani poterono contare su rifornimenti costanti mentre gli austriaci si trovarono a razionare armi, munizioni e vettovaglie. Per sfamarsi i soldati di Vienna fecero bollire i bachi da seta. Cercarono erbe, ortiche e radici nei fossi e sui muri.
Il generale Svetozar Borojevic, che comandava le truppe del fronte occidentale, relazionò allo Stato maggiore che «una truppa affamata non è idonea a svolgere un attacco ed era facile preda delle malattie». Le perdite più sensibili si verificarono per dissenteria. Fra i reparti, si diffuse un’epidemia influenzale che rese inabili interi reggimenti. Le armate di Vienna perdevano dai 600 agli 800 soldati al giorno. Mancava il chinino e non potevano essere effettuate le operazioni di profilassi. Malanni di per sé non gravi diventarono un pericolo mortale. L’impero austro-ungarico si stava avviando allo sfacelo. Tuttavia il capo di Stato maggiore, Franz Conrad von Hötzendorf, tentò di sfondare il fronte. Assaltò le piazzeforti italiane il 15 giugno 1918, nello scontro che l’immaginazione di D’Annunzio ribattezzò «la battaglia del Solstizio».
In quell’occasione, i generali austriaci si divisero fra chi intendeva attaccare il Grappa e chi riteneva che ci sarebbero state più possibilità di riuscita tentando l’attraversamento del Piave che scorreva più a est. Borojevic, che era un comandante ostinato e disposto a pretendere dai soldati impegni anche sovrumani, sconsigliò l’azione «alta» in montagna e quella «bassa» in pianura. Le truppe non sarebbero state in grado di affrontare uno sforzo simile. Meglio – secondo lui mantenerle in efficienza per avviare delle trattative di pace «da una posizione di non conclamata debolezza». Non fu ascoltato e, per non scontentare i paladini dei due progetti, convennero di metterli in atto entrambi. La mezza operazione che si svolse al nord prese il nome di «Radetzky» mentre quella preparata nel cuneo fra Montello e il Piave venne indicata come «Albrecht». I soldati assai più concreti la ribattezzarono Hungerexpedition: l’offensiva della fame. Nel senso che vincere significava mangiare. Perdere voleva dire avviarsi alla sconfitta definitiva.
Non mancò l’impegno austriaco. Il generale Ernest Horsetzky studiò un piano e lanciò i suoi uomini con assennatezza ma gli italiani non erano più quelli di Caporetto e opposero una resistenza efficace. Li comandava il generale Emilio De Bono, destinato a vestire la camicia nera del quadrumviro del fascismo. Niente da fare. «Non passa lo straniero». Lo sfondamento non riuscì e, da allora, le sorti del conflitto furono segnate dalla lunga agonia degli austriaci che mantennero le posizioni più per orgoglio che per convinzione. E per rispettare i richiami della propria coscienza più che per rispondere agli ordini dei comandanti. In tal modo, il 24 ottobre 1918 – stavolta per iniziativa italiana – si scatenò la terza battaglia del Monte Grappa. Lo scontro venne preceduta dal violento tiro dell’artiglieria per svilupparsi sull’Asolone, Cima Pertica, Osteria del Forcelletto, Prassolan e Valderoa. Gli Stati maggiori già si stavano preparando per discutere di armistizio con gli austriaci che battevano in ritirata e i reparti tricolore che li inseguivano. Una Caporetto al contrario. Il governo voleva raggiungere più obiettivi possibili per giocarseli al tavolo della pace con la potenza della coalizione. Prima che raggiungessero Trento, Trieste e Bolzano, obiettivi dall’avvio del conflitto, arrivò il «cessate il fuoco» ma quelle città issarono ugualmente la bandiera verde-bianco-rossa.