L’espansione in Etiopia del regime ha nascosto debolezze militari e conflitti ai vertici della spedizione coloniale. In Italia, però, la propaganda raccontava un’altra realtà, esaltando «la costruzione dell’impero». Un libro ricostruisce quegli anni e ne ripropone lo straordinario corredo iconografico originale.
La conquista dell’Etiopia e la proclamazione dell’Impero, nel 1936, rappresentarono il momento di maggior presa del fascismo sull’opinione pubblica. Gli stessi avversari ebbero ad ammettere che un successo di quelle dimensioni andava notato fra le voci attive del regime. Eppure, quella gloria si rivelò apparente tanto da avviare l’involuzione della politica di Benito Mussolini.
Mentre le ricerche storiche si stanno concentrando sui 100 anni della marcia su Roma, ovvero sul 28 ottobre 1922 con la presa di potere delle camicie nere, Luca Acquarelli, professore all’Università di Lille e a quella di Venezia, indaga i meccanismi di propaganda e autocelebrazione che accompagnarono l’impresa coloniale targata fascismo. Il suo bel lavoro Il fascismo e l’immagine dell’Impero (Donzelli) è un ricerca anagrafica di documenti ma sottende – contemporaneamente – un’analisi psicologica dei singulti e delle aspirazioni del regime.
Il 1936, con i piedi piantati nell’Africa da colonizzare, offrì copertine di giornali, manifesti, libri e rappresentazioni sceniche utili a comprendere il clima di celebrazione dell’epoca. L’impresa – per come concepita – avrebbe dovuto certificare la forza dell’esercito e assicurare campi da coltivare, con risorse agricole e minerarie capaci di garantire un salto di qualità dell’economia italiana. Si moltiplicarono le immagini dell’Africa sotto il vomere dell’aratro a significare che erano state trovate terre da far fruttificare.
E che all’impresa si volesse attribuire un tono epico vale la citazione che l’annuncio della conquista etiope pronunciato da Mussolini venne tradotto in latino. L’esordio rivolto alle «camicie nere della rivoluzione fascista» diventò «nigra subucula induti vos novi rerum ordinis auctores». Il sole tornava a sorgere sui colli di Roma. Servirono le metriche di Orazio per dare voce alla musica di Giacomo Puccini.
In realtà, non si ottenne la certificazione che l’esercito poteva competere con le grandi potenze e mancarono i vantaggi economici propagandati alla vigilia della spedizione. Il niente, però, costò caro sia in termini umani che di bilancio amministrativo perché la spedizione scontò il pressapochismo di tutte le iniziative tricolore dal Risorgimento in avanti. Di Etiopia si stava discutendo da anni sulla base di una relazione scritta dall’ambasciatore Raffaele Guariglia. Lungamente, Mussolini si rigirò quel documento fra le mani poi lo affidò al «quadrumviro» Emilio De Bono perché elaborasse un piano militare. Questi, con la collaborazione del colonnello Luigi Cubeddu, propose una «memoria» destinata a scontare un’ambiguità di fondo. Per un verso, occorreva una preparazione logistica meticolosa per avere ragione di un territorio immenso, in larga parte desertico. D’altro canto, il fascismo aveva bisogno di risultati immediati che gli servissero come biglietto di presentazione internazionale. Non mancarono le polemiche fra militari perché – come sempre dal Risorgimento in avanti – ognuno aveva un piano di battaglia difficilmente conciliabile con quello del vicino. Risultato? L’allora ministro della guerra che era un generale, Pietro Gazzera, venne silurato. E fu esautorato anche il generale Alberto Bonzani che era il capo dello Stato Maggiore.
L’occasione per avviare il conflitto fu offerta da una scaramuccia nella regione di confine dell’Ogaden dove gli uomini del presidio di Ual-Ual, il 5 dicembre 1934, si scontrarono con un drappello di abissini. Quattro fucilate che, però, amplificate quanto bastava diventarono la giustificazione dell’invasione. Nessuna dichiarazione di guerra: nella notte fra il 3 e il 4 ottobre 1935, le truppe del maresciallo De Bono attraversarono il Mareb e il Belesa che indicavano il confine territoriale e iniziarono a marciare verso la linea Adigrad-Enticcò-Adua.
Lo schieramento era poderoso a confronto con l’esercito abissino, dotato di un numero assai superiore di effettivi ma, praticamente, senza armi né munizioni. Per reggere l’urto, Hailé Selassié avrebbe voluto affidarsi alla guerriglia sfruttando la conoscenza del territorio che avevano i suoi uomini e l’ampiezza sterminata degli altopiani. Ma i ras locali (ognuno dei quali rivendicava l’autonomia di un sovrano) non lo seguirono nell’idea di logorare i nemici con la tattica del mordi-e-fuggi. Gli uomini valorosi, secondo loro, non dovevano combattere come briganti ma affrontare il nemico in campo aperto dove si poteva vincere con onore o restare sconfitti, ma senza perdere in dignità. Gli italiani, camminando fra pietraie e distese spaccate dal sole raggiunsero il Tigré. Sarebbe stato necessario consolidare le posizioni e aspettare la controffensiva etiope da posizioni favorevoli. Le esigenze del campo non andarono però d’accordo con le velleità di Mussolini che aveva fretta e tempestava i comandi per pretendere risultati immediati e definitivi. De Bono tentò di assecondare il duce ma il tempo gli giocò contro. Gli arrivò la notizia che sarebbe stato sostituito dal maresciallo Pietro Badoglio.
Il quale Badoglio, dopo aver alacremente lavorato per mettere in cattiva luce le iniziative dei comandi in Africa, ebbe da affrontare le stesse difficoltà alle quali rispose nell’identico modo. Pure lui venne accusato da Mussolini di eccessiva cautela ma evitò di fare la fine del predecessore perché gli etiopi decisero di contrattaccare: visti gli schieramenti in campo, equivaleva a un suicidio.
E, tuttavia, per vincere lo slancio dei nemici che montavano cavalli a pelo, scalzi e armati di lance, Badoglio utilizzò i gas (una delle poche cose vietate dalle convenzioni internazionali) che i piloti, dagli aerei, sparsero sui reparti abissini.
Infranta la forza d’urto nemica, gli italiani ebbero da affrontare la mera fatica di avanzare a piedi in territori dove le presenza animate erano rappresentate solo da quantità impressionanti di serpenti. Badoglio poté pensare alla marcia su Addis Abeba che cominciò il 26 aprile 1936. Diecimila soldati nazionali e 10 mila eritrei si misero in marcia. Alla spedizione furono aggregati una ventina di cavalli perché il generale e le più importanti personalità del seguito intendevano entrare in città con la solennità di antichi conquistatori. Nel pomeriggio del 5 maggio, i reparti italiani videro l’orizzonte (abitualmente piatto) frastagliato dai contorni delle mura della capitale. Pioveva fitto. Mancavano un paio d’ore per entrarci ma Badoglio, anticipando gli eventi, firmò il telegramma destinato a Roma: «Alla testa delle truppe vittoriose, sono entrato in Addis Abeba».
Così, all’imbrunire, Mussolini fu in grado di affacciarsi al balcone di piazza Venezia per «annunciare al mondo e al popolo italiano che la guerra era finita e ristabilita la pace». Qualche giorno dopo, il 9 maggio, altro memorabile discorso per proclamare la nascita dell’impero. «Ne sarete degni, voi?» E dalla piazza – come tuono – un formidabile «sì». L’inizio della fine. Il conflitto venne condotto con un bilancio «aperto» che, a consuntivo, costò 40 miliardi delle lire d’allora. Una cifra spaventosa che mise in ginocchio il bilancio dello Stato, impedendo ogni tipo d’investimento futuro e paralizzando, di fatto, ogni iniziativa statale di qualche respiro. Un terzo di quella cifra sarebbe bastato per risolvere la «questione meridionale» e dotare le province del Sud delle infrastrutture indispensabili per un’economia moderna. Diversamente da quanto promesso, l’Impero non appagò la sete di terre dei contadini italiani ma fu costretto a mettere nel conto duemila soldati morti in combattimento e altrettanti uccisi da malattie che, con quel clima, e a quelle latitudini, rappresentarono un pericolo che non consentiva difesa.
La guerriglia dei partigiani etiopi continuò per anni – almeno fino al 1941 – quando il sole che (abbastanza per caso) si era alzato sui colli di Roma tramontò, trascinandosi dietro quell’impero troppo posticcio per sembrare vero.