Il 5 dicembre 2013 moriva l’uomo che riuscì a sconfiggere l’apartheid e a ridare ai neri i loro diritti calpestati. Una battaglia infinita che gli valse 27 anni di prigione e, nel 1993, il Nobel per la Pace.
Con percezione quasi profetica, al momento di dargli un nome lo chiamarono Rolihalahla che, con approssimazione linguistica, significa «rompiscatole». Tuttavia, per la gente Xhosa della sua tribù era Madiba e, a scuola, non riuscendo a pronunciare con proprietà fonetica né l’uno né l’altro, lo ribattezzarono Nelson. Come l’ammiraglio inglese che sconfisse Napoleone. E infatti quando Nelson Mandela morì (5 dicembre 2013) gli tributarono gli onori di un condottiero che – come romantico combattente – aveva sconfitto un nemico con le sembianze del mostro. In una manciata d’anni, aveva ribaltato la struttura della società sudafricana. I neri che, prima di lui non avevano nemmeno la possibilità di parlare, con lui erano nelle condizioni di eleggere uno di loro alla presidenza del Paese.
Lo stadio di Johannesburg dove furono celebrati i funerali riuscì (a stento) a contenere le delegazioni ufficiali che 480 aerei avevano catapultato in Sudafrica da ogni parte del mondo. Il presidente americano Barack Obama e quello cubano Raul Castro si videro per la prima volta e si strinsero la mano. Che fosse uno «scassaballe» risultò chiaro fin da subito quando cominciò a opporsi alle usanze del suo clan. Era nato a Mvezo, sulle rive del fiume Mbashe, nella regione di Umtata, fra neri che, in quegli anni, in quello spicchio di Africa, non potevano considerarsi propriamente dei cittadini. Incurante di come stava cambiando il mondo, il tempo si era come fermato al secolo precedente, proponendo una società dai lineamenti primitivi: i bianchi che comandavano urlando e gli altri che ubbidivano in silenzio. Cioè gli uni godevano di tutti i diritti mentre gli altri restavano senza. Tuttavia, all’interno di strutture apparentemente compatte, era possibile individuare una gerarchia di qualche consistenza. I Mandela, per esempio, in un orizzonte sconfinato di miseria e sopraffazione, erano meno sfortunati. Godevano del titolo regale come discendenti del clan dei Thembu. Il che, pur sotto il piedestallo sociale, assicurava rispetto e pubblico riconoscimento. Nelson iniziò a contestare proprio questo suo minimo status. A 22 anni, come d’uso fra i suoi, i capi tribù gli trovarono una moglie «adatta al rango». Il consenso dei diretti interessati non era previsto. I genitori pagarono la dote del matrimonio.
All’«attaccabrighe» si poteva imporre una decisione così vincolante? Se ne andò dal villaggio e sposò Evelyn Ntoko Mase. Per campare, si trasferì a Johannesburg come guardiano alle miniere «della Corona». Lì, si rese conto di come la miseria poteva essere più arida di quella che aveva conosciuto e come la soggezione sopravanzasse limiti che lui stesso credeva irraggiungibili. Accettare? Con due compagni – Walter Sisulu e Oliver Tambo – fondò la Lega Giovanile dell’African National Congress che si proponeva il riscatto della gente di colore ma, in realtà, si avvoltolava in rivendicazioni sterili e, alla fine, inconcludenti. La nuova generazione impresse slancio alla lotta contro l’apartheid raccogliendo consensi in termini di adesioni al movimento e di approvazione sociale. Mandela divorziò dalla prima moglie e «folgorato dalla sua bellezza» sposò Winnie Madikiezela. Le sollecitazioni del cuore non gli fecero perdere di vista l’organizzazione del partito. Lo strutturò in cellule sufficientemente piccole da passare inosservate e, per incontrare gli aderenti, s’ingegnò nell’organizzare tornei di rugby. Mentre gli atleti si affrontavano, i rivoluzionari dell’African Congress s’incontravano sugli spalti, mescolati agli spettatori. E le discussioni sembravano intemperanze di tifosi.
Il partito «nero» sotto la sua direzione sposò la lotta armata. Lui personalmente non imbracciò mai fucili e non fece esplodere bombe ma predicò che la rivolta non poteva essere affidata solo ai nobili discorsi. Occorreva farsi sentire e, per ottenere un risultato positivo, era indispensabile un rumore adeguato. Il punto di non ritorno, il 21 marzo 1960, a Sharpeville. Era stata convocata una protesta contro la segregazione attuata dal governo bianco. Si radunarono 10 mila persone, la polizia iniziò a sparare ad altezza d’uomo lasciando 70 morti. Le contro-manifestazioni attraversarono il Paese e il governo proclamò stato d’assedio e legge marziale. Mandela si trovò in tribunale a rispondere di accuse sempre più gravi: sabotaggio e tradimento. L’ultimo processo -12 giugno 1964 – fu rapido e scontato nella conclusione.
Per la sua difesa, rischiando in prima persona, si schierarono Joel Joffe, Arthur Claskalson e George Bizos, ma l’arringa destinata a passare alla storia la pronunciò lui stesso. «Conservo» sillabò senza lasciare che gli tremasse la voce «l’ideale di una società libera. Immagino una comunità dove le persone vivano insieme e in armonia. Questo» aggiunse «è il proposito per cui vivo e che spero di vedere realizzato. Ma, se necessario, è un ideale per il quale sono disposto a morire». Sentenza definitiva: ergastolo. Che, tuttavia, anziché seppellirlo in carcere, gli assicurò una popolarità internazionale. In Sudafrica «Nelson libero» diventò un grido di battaglia e, all’estero, la rudezza che il regime attuava nei suoi confronti si trasformò in boomerang politico. In suo onore, scrissero poemi e canzoni (Ordinary e Invictus). Girarono film (famoso quello di Clint Eastwood come regista) sulla sua storia. Al punto che il presidente bianco Pieter Willem Botha, faticando a resistere alle pressioni che gli arrivavano dappertutto e provocavano l’isolamento del suo Paese, propose a Mandela la grazia. In cambio, si sarebbe accontentato di una dichiarazione – anche generica – di rinuncia alla lotta armata.
La risposta fu sofferta e, tuttavia, definitiva. Restò in carcere – a Robben Island – fino all’11 febbraio 1990, quando il contesto mondiale provocò il collasso del sistema di governo sudafricano. Il presidente Frederik de Klerk si trovò costretto a rilasciare Mandela e a legalizzare il partito dell’African Congress. Mandela aveva compiuto 71 anni e, davanti alla prigione, in un panorama circondato da sbarre e cancelli chiodati rispose a un giornalista che lodava la sua forza d’animo. «Il coraggio» precisò «non è mancanza di paura ma la capacità di vincerla». Nel 1993 gli assegnarono il premio Nobel per la pace. Riconoscimento cui fece onore non incentivando la guerriglia ma adoperandosi per un passaggio istituzionale morbido. La transizione da un regime di apartheid a uno più democratico si concretizzò con le elezioni del 27 aprile 1994. Mandela si candidò alla presidenza vincendo contro De Klerk. «Io» le prime dichiarazioni «odio il razzismo che venga da un bianco o da un nero». E per dimostrarlo, nominò il suo sfidante sconfitto alla vice presidenza.
Non era un ragazzino e la prigione aveva segnato la sua salute. Mise la mani avanti dichiarando che , per lui, non ci sarebbe stato un secondo mandato presidenziale. Ci fu invece un terzo matrimonio. Winnie non seppe resistere ai benefici e al lusso della popolarità e finì per diventare un intralcio anche morale. Mandela sposò Graça Machel, vedova del presidente del Mozambico Samora. Il 28 marzo 2013 venne ricoverato a Pretoria per un’infezione polmonare: conseguenza di una tbc che si trascinava dal periodo della prigione. Fu dimesso dopo pochi giorni ma iniziò un andirivieni con l’ospedale. Fin quando, la notte del 5 dicembre 2013 – dieci anni fa – il presidente Jocob Zuma, in diretta tv, annunciò che «era morto il padre della Patria».