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Perché tanti hanno nostalgia di Papa Giovanni Paolo II

Perché tanti hanno nostalgia di Papa Giovanni Paolo II

Vent’anni fa si spegneva Giovanni Paolo II, il pontefice polacco dotato di un tale carisma che la sua figura non cessa di svettare. Un esempio di forza nella fede di cui il mondo ha ancora bisogno.

Nell’aprile di vent’anni fa si celebrò il congedo maestoso della cristianità cattolica apostolica e romana dal mondo e dal tempo. Dopo una lunga malattia e un lunghissimo pontificato, morì Giovanni Paolo II e la sua impronta apparve grandiosa sulla storia del secolo e sulla fede cristiana. Grandiosa fu pure la cerimonia di addio al Papa; parvero le esequie planetarie di un’epoca a lui dedicata. Andava via un gigante, Karol Magno, al secolo Wojtyla. 

Dopo di lui venne un papa acuto e gentile, che non aveva l’attitudine a regnare e a scuotere i popoli; alle sue dimissioni subentrò un Papa pop, green e poco ieratico che cercava la simpatia del suo tempo e si curava meno del collasso della fede cristiana. Sicché dopo vent’anni non si è spenta la nostalgia di Giovanni Paolo II, della sua figura, della sua voce, del suo carisma, del suo volto luminoso, ma anche dei suoi gesti rituali e perfino teatrali, della potenza dei suoi messaggi e della sua parola. Nostalgia della sua Chiesa, del suo pontificato e della sua tempra, di quel che visse e affrontò, la sua lotta al nazismo e al comunismo, il suo amor patrio e il suo vano appello all’Europa a unirsi nel nome delle radici cristiane.

Giovanni Paolo II fronteggiò la scristianizzazione del mondo a partire dall’Occidente, nel tempo del nichilismo gaio e dell’ateismo pratico, in cui l’Occidente si vergognava di sé e il fanatismo islamico si espandeva. Affrontò il deserto dell’indifferenza e il gelo del cinismo. La sua lunga lotta con l’Occidente sazio e disperato fu coronata da un magnifico insuccesso. È stato il Papa dell’Europa che si unisce e tramonta, del comunismo sconfitto da un altro materialismo, del riarmo islamico e dal relativismo etico. Mai un Papa ha parlato così tanto e a così tanta gente e mai è stato così inascoltato. Amato ma non seguito. Giovanni Paolo II fermò l’onda del Concilio Vaticano II, ma senza tornare indietro, alla Chiesa preconciliare. Vanamente il Papa invocò il riconoscimento delle radici cristiane dell’Europa, si oppose alla deriva morale dell’Occidente e al dominio globale del capitalismo. Non abbracciò l’idea di uno scontro di civiltà e di un conflitto religioso con l’Islam. Per lui la prima minaccia all’Occidente e alla cristianità non proveniva dall’esterno ma dall’interno. La stessa caduta del comunismo a cui il Papa contribuì in modo decisivo, non fu letta da lui solo come la vittoria dei valori di libertà e dignità umana ispirati dal cristianesimo: ma come il passaggio dall’ateismo ideologico e militante del comunismo all’ateismo pratico e consumista delle società egoiste e capitaliste.

A differenza di Papa Francesco, mai tornato in Argentina, Giovanni Paolo II andò più volte nella sua patria polacca, rivolse appelli vibranti al risveglio spirituale e religioso e al risorgimento nazionale e tradizionale del mondo slavo. In Polonia il Papa celebrò la sua patria, s’inginocchiò davanti alla tomba del Milite Ignoto, ricordò il sacrificio di martiri ed eroi, difese il patrimonio millenario della tradizione cristiana, affidandolo nelle mani della Madre di Dio, e infine sollevò un grido, da «figlio della terra polacca» e da pontefice: «Scenda il tuo Spirito! E rinnovi la faccia della Terra». 

Cominciò allora il risorgimento della Polonia e poi di altri Paesi dell’Est che portò alla disfatta del comunismo e alla caduta di odiosi muri e cortine di ferro. Finì il comunismo, cominciò l’Europa. In un’altra tappa polacca, Papa Wojtyla si appellò «al linguaggio degli avi» e alle «lingue slavi affini», definendosi non a caso «il primo Papa slavo nella storia della Chiesa». «Forse proprio per questo» aggiunse, «Cristo lo ha scelto». E seguitò: «Questo Papa porta nel suo animo profondamente impressa la storia della sua nazione e anche la storia dei popoli fratelli e limitrofi». E ancora: «Non è un disegno provvidenziale… che questo Papa slavo proprio ora esprima l’unità spirituale dell’Europa cristiana?».

Lo ricordo nel 2002 quando il Papa entrò nell’aula di Montecitorio come un apostrofo bianco e curvo, in mezzo al blu istituzionale dei poteri civili. La chiave del suo discorso in Parlamento fu la tradizione, «il patrimonio di valori trasmesso dagli aviı, l’impossibilità di comprendere l’Italia e l’Europa «fuori da quella linfa vitale costituita dal cristianesimo», la necessità di «fondare la casa comune europea sul cemento di quella straordinaria eredità religiosa, culturale e civile che ha reso grande l’Europa nei secoli», «le tracce gloriose che la religione cristiana ha impresso nel costume e nella cultura del popolo italiano», le testimonianze d’arte e di bellezza fiorite in Italia nel nome della fede, il diritto naturale e il sentire comune tramandato; e il suo appello agli italiani a «continuare nel presente e nel futuro a vivere secondo la sua luminosa tradizione». Un grande discorso che dista anni luce dal presente.

Anche Papa Wojtyla tendeva la mano all’Africa, apriva all’accoglienza, si appellava alla carità e alla solidarietà, invocava la giustizia sociale e amava i poveri. Ma il contesto dei suoi appelli era opposto a quello del suo successore Bergoglio: Giovanni Paolo II predicava, pregava, accoglieva nel nome della civiltà europea e della tradizione cristiana, tenendo ben saldi i riferimenti all’identità religiosa dei popoli e delle nazioni. Non chiedeva di abbattere i confini ma di conciliare l’amor patrio e i diritti delle nazioni con la carità e il dialogo. Vent’anni dopo si avverte ancora la sua mancanza. Karol Magno.

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