Cronaca della caccia al tesoro per avere il documento per l’espatrio. Tra procedure arcaiche, pagamenti in contanti e tanta burocrazia. Alla faccia della trasformazione digitale, che non c’è.
In tutte le Questure d’Italia si fa la fila per ottenere il passaporto e non si capisce perché. Siamo nell’era della tecnologia, del digitale e il futuro pare tracciato dall’introduzione dell’Intelligenza artificiale. Ma per rilasciare un passaporto servono mesi e a volte non bastano. Mancano forse gli impiegati? È la piattaforma per prenotare l’appuntamento che non funziona? Oppure sono le verifiche necessarie per stabilire che il richiedente non abbia pendenze economiche o penali? La risposta non c’è, perché nessuno è davvero in grado di fare chiarezza sull’incomprensibile ritardo. Sul numero di Panorama in edicola cerchiamo di dare alcune risposte. Per quanto mi riguarda, posso raccontare la mia esperienza, che comincia con un appuntamento a cui di certo non mi ero preparato con cura, pensando che per avere il documento necessario all’espatrio fosse sufficiente presentarsi all’Ufficio passaporti munito di due fotografie formato tessera e null’altro. Invece, una volta davanti all’impiegato ho scoperto che erano necessari un versamento di 42,50 euro sul conto del ministero dell’Economia e delle finanze e un contrassegno amministrativo dell’importo di 73,50 euro. Poco male, ho pensato: sono in un ufficio pubblico, che rappresenta il ministero dell’Interno e dunque lo Stato, il pagamento lo posso fare subito e anche l’acquisto della marca da bollo. No, è stata la risposta secca del funzionario. Qui non prendiamo soldi, bisogna andare alla Posta.
Ma come, ormai tutto, anche le tasse e i contributi per la colf si pagano con il telefonino, perché un versamento per il rilascio del passaporto elettronico non si può fare allo stesso modo? Mistero. Così – ribadisco, colpa della mia disattenzione – mi sono messo alla ricerca di un ufficio postale, che grazie al cielo ho trovato in fretta. Prendo il biglietto e attendo che venga il mio turno: l’orario mi facilita, perché non c’è fila e quindi in pochissimo tempo riesco a compilare il bollettino e a consegnarlo. Pago i miei 42,50 euro e poi chiedo di comprare il contrassegno amministrativo. Qui non lo vendiamo, mi spiega l’impiegato: deve andare dal tabaccaio. Be’, poco male, penso: ce n’è uno vicino, alla fermata della metro. Scendo le scale e chiedo la marca da bollo. Non c’è, è finito il rotolo su cui viene stampata e i Monopoli non hanno consegnato quello nuovo.
Dunque, risalgo le scale e mi metto alla caccia di un altro tabaccaio, che – scopro a mia insaputa – come le edicole stanno diventando sempre più rari, perché la gente fuma meno. Ne trovo uno e si ripete la scena del bar nella metro: finite. Mi allungo qualche centinaio di metri più in là, ma anche nell’altro esercizio che espone la «T» e il marchio dello Stato non c’è nulla da fare. Mi faccio tutta la via: nulla. Le marche da bollo sono più rare di un «Gronchi rosa». Cambio via e dopo centinaia di metri trovo un minuscolo bar e, già pronto alla risposta negativa, chiedo se hanno il «raro» contrassegno ministeriale. Sono fortunato: c’è. Però, mi spiega la signora, si può comprare solo in contanti. In contanti?
Ma come? Lo Stato vuole scoraggiare l’uso delle banconote perché pensa che le maneggino gli evasori per sottrarsi all’obbligo di pagare le imposte e il ministero dell’Economia e delle finanze pretende che giri con 73,50 euro in tasca? Evito di farmi troppe domande e di chiedere alla barista perché secondo lei non si possa pagare con la carta di credito o il telefono, visto che ormai anche un caffè si può saldare così. Non le chiedo nemmeno come mai, invece di fare cifra tonda, lo Stato reclami 73,50 euro. Non era meglio fare 70 o 75? E come mai esigere 42,50 euro e non 40 o 45? Rinuncio ad approfondire, cosciente che la pubblica amministrazione è un segreto meglio custodito di quello di Fatima, che nessuno – neanche un veggente – è in grado di decifrare.
Finalmente ho il bollettino di pagamento e anche la marca da bollo e dunque posso ritornare all’Ufficio passaporti, dove il funzionario ha avuto la pazienza di aspettarmi e non mi costringe a ripassare un altro giorno. E così, ecco tra le mani il mitico libretto bordò che vale un viaggio all’estero. Cosa ci sia di così complicato da richiedere un «parto» lungo nove mesi non è chiaro. In Italia ci sono meno di 60 milioni di abitanti e dato che i neonati di regola non espatriano e una buona parte dei connazionali, quando esce dai confini si ferma a quelli europei, dove non c’è bisogno di passaporti, quanti saranno i documenti da rilasciare ogni anno? Un milione? Cinquecentomila? E mi volete far credere che, tolti sabati e domeniche, rilasciarne duemila al giorno in tutta Italia sia uno sforzo titanico? Suvvia, abbiamo, o dovremmo avere, digitalizzato la pubblica amministrazione.Che cosa ci vuole a fare un clic e a dare il passaporto a tutti gli italiani che lo chiedono senza farli attendere mesi? Soprattutto senza sottoporli a una gimcana alla ricerca di un tabaccaio?