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Quanto poco vale oggi una vita

Quanto poco  vale oggi 
una vita

A Napoli un omicidio via l’altro, ma è ovunque, non solo in quella città «bastarda», che uccidere sembra diventato routine.


«Guarda città bastarda, guarda cosa mi hai fatto». Non riesco a togliermi dalle orecchie l’urlo della mamma di Giovanbattista, il giovane musicista ucciso da un 17enne nel centro di Napoli per una lite da nulla. Un diverbio al pub, una discussione nata da un parcheggio, uno scooter o una bustina di maionese. Le voci che si alzano, poi i colpi di pistola. Il nume tutelare del Grillo dice: fai attenzione al moltiplicarsi di episodi di violenza all’ombra del Vesuvio. Basta una piccola ricerca, infatti, per essere travolti: a inizio marzo due morti uccisi in strada nel giro di poche ore tra Pianura e la zona est; il 21 marzo un 19enne ucciso da un coetaneo per una macchia sulla scarpa; il 25 aprile un 19enne ucciso da un colpo di pistola dentro la sua auto a Caivano; il 5 maggio, durante la festa scudetto, un 26enne ucciso in mezzo alla folla, probabilmente per un regolamento di conti; il 20 giugno a Pomigliano d’Arco un uomo ucciso a botte davanti al supermercato… L’elenco è impressionante. Fa pensare. Davvero una «città bastarda»? Davvero si possono scaricare le ragioni di questa violenza sul malessere di Napoli? Sulla criminalità che qui impera? Sul modello Gomorra che affascina i giovani?

Non credo. Anzi, penso che sarebbe pericoloso. Certo: fa impressione sapere che il 17enne che ha sparato a Giovanbattista già a 13 anni aveva cercato di accoltellare un coetaneo durante una rissa. E fa impressione sentirgli dire: «Ai quartieri spagnoli le pistole vanno e vengono come l’acqua fresca». Però temo che circoscrivere l’esplosione di violenza al distretto partenopeo sia ingiusto e pericoloso. Ingiusto perché, senza voler negare i problemi specifici di Napoli, vediamo fenomeni simili in tutta la nazione. Pericoloso perché temo che riducendo tutto alla criminalità in salsa Gomorra si perda di vista un problema più grande: che ormai l’omicidio pare diventato una routine. Un mezzo come un altro per risolvere i problemi. Anche quando i problemi sono di piccolo conto, come per l’appunto il parcheggio di uno scooter o una bustina di maionese. La vita umana, evidentemente, vale di meno.

E, questo è il punto, la vita umana vale di meno non solo per l’aspirante Genny Savastano di Napoli. Macché. Vale meno anche per la mamma di Livorno, il trapper di Roma, il barman del centro di Milano… A quanti episodi del genere abbiamo assistito, con sgomento, negli ultimi tempi? Dell’assassino di Giovanbattista mi ha colpito, ancor più della dimestichezza con le pistole, il fatto che dopo aver ammazzato il giovane musicista sia andato a giocare a carte come se nulla fosse. Ma questa freddezza non è forse la stessa del trapper di Roma che ha ucciso, per un debito di 35 euro, la sua amica Michelle a Primavalle e poi l’ha messa in un carello della spesa? In questi giorni Repubblica ha pubblicato il suo agghiacciante interrogatorio subito dopo l’arresto. Racconta della lite per futili motivi e poi della decisione di ammazzarla. «Ho visto un contenitore con i coltelli, ci ho pensato cinque secondi. E l’ho uccisa».

Cinque secondi? Possibile? Bastano cinque secondi per scegliere di uccidere? Quel ragazzo non dice di aver agito di impulso, non dice «non mi rendevo conto di ciò che facevo». No. Ci ha pensato. In cinque secondi ha deciso che era la scelta giusta. E ne era convinto anche subito dopo, dal momento che la ragazza era viva ma lui non l’ha soccorsa («Avrei potuto chiamare l’ambulanza ma non l’ho fatto»). Evidentemente quella vita, per lui, valeva meno dei 35 euro di debito. Perciò andava eliminata. È la stessa determinazione con cui il barman di Milano Alessandro Impagnatiello si è sbarazzato della fidanzata Giulia e del bimbo che portava in grembo: prima cercando su Internet il topicida, poi scegliendo la via breve di 37 coltellate. L’aveva messa incinta e non voleva pagare gli alimenti. Come si fa a risolvere il problema? Ovvio: si uccide. Le due vite, mamma e bimbo, valgono meno dell’assegno mensile che bisognerebbe passare loro. Figurarsi poi quanto vale la vita singola di un bimbo. Meno di niente. Per informazioni chiedere a quella mamma che a Livorno ha ucciso suo figlio Marcus, due anni e mezzo appena, buttandolo giù dalle scale. Voleva vendicarsi dell’ex marito.

Ecco: se noi riducessimo tutto a un problema di Napoli, forse perderemmo di vista che non si uccide solo per imitare gli eroi di Gomorra. Si uccide, soprattutto, perché si pensa che così si risolvono i problemi, anche quelli di minimo conto (lo scooter, la maionese, 35 euro di debito, gli alimenti, la lite con l’ex marito…). Bisogna averlo chiaro, per cercare rimedi. Troppo spesso infatti, negli ultimi anni, abbiamo sentito parlare del valore della morte. E troppo poco abbiamo sentito parlare del valore della vita. Forse bisognerebbe invertire la rotta. Per far capire a tutti che la morte è sempre una sconfitta e una tragedia. Mai un successo. Tanto meno un modo spiccio per risolvere i problemi.

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