«La pandemia ha cambiato i consumatori e i loro acquisti» dice a Panorama Nunzio Colella, patron della grande catena d’abbigliamento Alcott e Gutteridge . «I provvedimenti presi? Non conoscono il mondo della moda. Altri sei mesi così e sarà una strage di imprese».
«Sa qual è stato per me il giorno più duro dopo quelli del lockdown?»
No, me lo dica.
Quello in cui è stato varato il Dpcm che ha chiuso cinema e teatri.
Scusi, dottor Colella: lei è l’amministratore delegato di una delle maggiori catene di abbigliamento in Italia…
E allora?
Con tutto quello che è accaduto, e gestendo ben due marchi di abbigliamento, due catene, 200 negozi in Italia e in Europa, lei si preoccupava per lo spettacolo?
«Posso risponderle in due modi. Il primo come uomo, che rinuncerebbe con dolore a una prima al San Carlo».
E invece?
«Invece raccolgo la sua provocazione e le rispondo da manager: un cinema chiuso è un dramma per l’economia. Un teatro che non apre è un colpo al cuore della società».
Non si riferisce all’industria dello spettacolo?
«No, parlo della vita civile. Di tutti noi».
In che senso?
«Molti faticano a trovare una definizione esatta di cosa sia la moda. Bene, gliene voglio dare una io, con l’esperienza di un gruppo che prima del Covid fatturava 250 milioni di euro l’anno».
E qual è?
«Per me la moda è un termometro. Misura il tasso di vitalità di una società».
Dice?
«In questa pandemia la moda ci fa capire molto più di un saturimetro».
Intuisco cosa intende, ma si spieghi meglio.
«Noi non ci vestiamo solo per proteggerci dal freddo. Altrimenti potrebbero bastare le pelli di orso usate dall’uomo di Neanderthal».
E quindi?
«Noi – da quando esiste la civiltà – ci vestiamo per dire chi siamo, per diventare chi vogliamo, per comunicare quello che ci sta più a cuore».
Sta dicendo che se chiude un cinema si abbassa il tasso di vitalità di una società?
«Esatto, e le dico di più. Cambia il senso della nostra convivenza. Infatti sta già cambiando e io dal mio osservatorio ho segnali allarmanti».
Me ne dica uno.
«Sono cambiate le abitudini d’acquisto dei consumatori: se prima si acquistavano capi formali, eleganti, oggi il cliente predilige pantofole, felpe con cappuccio, tute, t-shirt. Capisce? Questa è la prima conseguenza del Covid, quella più diretta e intuibile».
In che senso?
«Si lavora in smart, i teatri, i cinema sono chiusi, la vita sociale è in stand by e di conseguenza lo sono i capi più formali che cedono il passo a quelli da casa. E questa è solo una delle conseguenze, ci sono anche quelle indirette, più subdole. E più inquietanti.
Quali?
«Fermare la vita sociale produce un crollo anche nelle nostre vite private. E io me ne accorgo dai nostri venduti».
Perché?
«Inizi a non metterti la cravatta perché non devi più andare al lavoro, poi non ti metti la giacca perché tanto non esci, e poi vivi tutto il giorno in tuta perché vuoi stare comodo. Finché alla fine non ti togli più nemmeno il pigiama…»
Accadrà?
«Sta già accadendo! Infatti adesso produciamo più pigiami, più intimo, più tute, più pantofole. Ma quante pantofole ti puoi comprare?»
E alla fine?
«Stiamo creando un esercito di abbrutiti. Mi chiedo: io ho il mio termometro da manager. Ma qualcuno si sta ponendo il problema degli effetti psicologici e sociali del Covid? Questo tema non riguarda anche medicina e politica?»
Nunzio Colella è l’amministratore delegato del Gruppo Capri. Duecento negozi tra Italia e Spagna, due catene nazionali di marchi: Alcott e Gutteridge. Nel 2019 il gruppo (una multinazionale familiare con sede a Nola) festeggiava a Piazza Affari la conquista del prestigioso premio «Imprenditore dell’anno». E solo pochi mesi fa, aggiunge Colella, «eravano una delle aziende più liquide d’Italia, con assoluta facilità di accesso al credito». Adesso, dice, «tutto è diventato difficile, a partire dal credito. Mi pare di vivere in un incubo e mi pongo la domanda. Ha senso riempiersi di debiti per tirare avanti?».
Dottor Colella, mi faccia un altro esempio di qualcosa che misura con il suo termometro.
«Sicuramente misura la nostra fiducia nel futuro: come famiglia e come azienda, infatti, non ci siamo mai fermati durante la pandemia e non abbiamo permesso che i problemi prendessero il sopravvento, impegnandoci e lavorando su più fronti».
Come avete reagito?
«Prima di tutto ci siamo concentrati sullo shop online per entrambi i brand; con Gutteridge, abbiamo aperto ai mercati esteri, Europa, Usa, Gran Bretagna, con un’ottima risposta da parte dei consumatori. Con Alcott invece abbiamo puntato sul mercato italiano e su quello europeo, ottenendo anche qui risultati eccellenti».
Come alternativa?
«No. In attesa di poter riaprire i negozi, abbiamo realizzato il progetto di «omnicanalità», per cancellare la linea divisoria che finora ha separato la rete online da quella fisica».
Vi ritirate dai negozi fisici?
«Scherza? Stiamo preparando un restyling futuristico per gli store Alcott. Io ai clienti voglio continuare a offrire un’esperienza d’acquisto completa e indimenticabile perché non credo che il virtuale possa mai sostituirla».
Ha senso puntare sulla fisicità?
«Noi lo vogliamo fare. Durante la pandemia abbiamo lavorato al progetto di Palazzo Sirignano, a Napoli, per lo sviluppo di un hotel di lusso disegnato da Michele Bonan».
Però è difficile investire senza certezze.
«Non ci siamo fatti scoraggiare dalla situazione, ma il quadro è comunque complesso e noi abbiamo una visuale sul nostro mondo piuttosto ampia, abbracciamo pubblici diversi, avvertiamo la paura».
Cosa intende?
«Gli incassi a novembre sono crollati ben prima che fossero create le zone».
E cosa è accaduto?
«Alcott è il marchio più giovane, Gutteridge, quello che abbiamo rilevato e resuscitato, simbolo della sartoria maschile. Ma quando le regioni diventano rosse si ferma tutto. Vecchi, giovani, uomini e donne. E qui iniziano i dilemmi».
Mi faccia un esempio.
«Prenda Natale. Lei che farebbe? Li rifornirebbe i negozi chiusi o no?»
A chi lo chiede?
«Al nostro governo: perché se io non ho la certezza che potrò aprire i miei negozi, rischio di buttare solo soldi».
E se non rifornisce?
«Si immagina di aprire e di non avere la merce da vendere?»
Quando lo deve decidere?
«Ieri. Attenzione: per mandare la merce in Spagna, o al Nord, servono dieci giorni. Il colmo sarebbe rifornire e restare chiusi».
Ma non si può tenere da parte una collezione per un anno?
(Ride) «Si può tutto. Da un punto di vista commerciale, però, sarebbe un suicidio».
Perché?
«Perché la moda, la tendenza, lo stile, non si possono mettere in scatola».
Cosa intende?
«Anche se i negozi sono chiusi, gli orologi battono sempre il tempo, e la testa delle persone cambia».
Quindi un capo progettato invecchia anche chiuso in una scatola.
«Anche se non lo vede nessuno. Perché l’arte, l’intuito, la libertà creativa non hanno confini. Vuole un paragone?»
Certo.
«Lo stile è a metà fra la letteratura e il pesce appena pescato».
Cioè?
«Se non lo consumi invecchia, e se provi a nascondere che non è fresco, puzza».
Che cosa la preoccupa di più?
«Il credito. Oggi per noi vale “la regola del doppio”».
Cioè?
«Proprio ora che abbiamo più bisogno di liquidità ce lo fanno pagare il doppio, ce lo danno nel doppio del tempo e con il doppio della difficoltà».
Anche le banche rischiano.
«Con la garanzia della Sace? Nulla!»
La sento arrabbiato.
«Per forza: in questa crisi non siamo tutti uguali. Noi ci indebitiamo per vivere, e qualcuno guadagna il doppio, con la garanzia dello Stato».
Sogna soldi a fondo perduto?
«Non li sogno e non li chiedo, perché sono realista. Non voglio un euro regalato! E come me la maggior parte dei miei colleghi».
E cosa vuole?
«Trovo assurdo che il meccanismo dei prestiti sia così lento e farraginoso».
Quanto avete avuto fino a oggi?
«Ancora nulla, e abbiamo avviato la richiesta ad aprile. Le pare possibile?»
Cosa chiede al governo?
«Sarebbe una buona idea far slittare l’Iva, almeno per un anno».
Hanno paura che crolli il gettito.
«Non conoscono il nostro mondo. Altri sei mesi così e non ci sarà nessuno a pagare perché nessuno può resistere».
Quanto avete perso con il Covid?
«Per ora? 100 milioni di euro di fatturato. E siamo tra i fortunati».
Avete preso utili?
«Scherza? Abbiamo rinunciato a tutto».
E il prossimo anno?
«Mi ascolti: questa crisi ci ha insegnato con le lacrime e con il sangue che il mercato ha bisogno di cinque ingredienti vitali».
Quali?
«Il lavoro, i finanziamenti, i consumatori, il prodotto, la possibilità di programmare. E io aggiungo anche la libertà».
E invece?
«Se ci pensa sono venuti meno tutti. Altri sei mesi così e sarà una strage di imprese».
Perché?
«Perché così finisci a fare un ragionamento pericoloso ma lucido».
Quale?
«Se devo pagare il denaro di più, faticare a trovarlo, riempirmi di debiti per tenere aperto, senza nessuna certezza, allora tanto vale chiudere subito».
E chi può fare questo ragionamento?
«Anche noi. E mi creda: tanti lo hanno già fatto».