Nella mostra alla Pinacoteca nazionale dell’Umbria, a Perugia, sessanta opere ricostruiscono magistralmente L’enigma del Maestro di San Francesco, uno degli artisti più importanti del Duecento al quale però non si è riusciti ancora a dare un nome.
Dopo tanti anni, dopo tanti studi, dopo tanta letteratura critica sembra impossibile che si possa capire sempre di più, e che dai testi che già si conoscevano, ai primordi dell’arte italiana, in quel sottile punto di congiunzione tra l’immobile civiltà bizantina, tra Venezia, Costantinopoli, Pisa, Genova e Assisi, e l’infinitamente mutevole civiltà moderna, si possa individuare, oltre i limiti fin qui riconosciuti, un grande maestro, che procede dal precursore Giunta Pisano e va verso Cimabue e Giotto: il Maestro di San Francesco. C’è sempre stato, invero; ma oggi, con l’impressionante mostra nella Pinacoteca nazionale dell’Umbria, a Perugia, gli stessi dipinti, che pure erano esposti (ed elusi) nella prima sala, a partire dall’assoluto capolavoro che è la grande Crocefissione proveniente dalla chiesa di San Francesco a Prato, sia pure integrata con i dossali dell’altare su cui stava la croce, e dagli eccezionali prestiti delle due più piccole Crocefissioni, dello stesso Maestro, del Louvre e della National Gallery di Londra, che ispirò la grande studiosa Evelyn Sandberg Vavalà, nel pioneristico studio La Croce dipinta italiana e l’iconografia della passione del 1929: «…la grazia, la bizzarra virtuosità del gruppo squisito della Svenimento della Vergine raffigurato nel centro, dove le tre figure si fondono in una sola massa verticale formanti con gesti di tenerezza intima un arabesco di ritmo indimenticabile».
Il pittore, che oggi più di ieri giganteggia, verso la pittura che lentamente cresce in nuova lingua nel grande laboratorio della Basilica di San Francesco ad Assisi, si riconosce in un artista attivo in Umbria tra 1260 e 1280, autore di invenzioni vivacemente espressive, di intenso patetismo. Il nome deriva dalla tavola, qui esposta, con San Francesco e due angeli oggi conservata nel Museo di Santa Maria degli Angeli. Fu il primo pittore chiamato a dipingere, intorno al 1255-1260, nella navata della Basilica inferiore, due cicli di affreschi con Storie della vita di san Francesco e Storie della Passione di Cristo, ampiamente danneggiati dall’apertura delle cappelle laterali, e sapientemente risarciti in una sorprendente «anastilosi digitale», una ricostruzione elaborata da Federica Corsini, Andrea De Marchi, Veruska Picchiarelli, Giorgio Verdini, Emanuele Zappasodi, il gruppo di studio cui dobbiamo questa imprevedibile rinascita.
La lingua del Maestro di San Francesco non è più bizantina e non è ancora moderna, ma è potentemente animata, viva. Da dove viene questo linguaggio fisico, concreto, finalmente umano? La mostra scomoda la stauroteca del Museo diocesano di Cosenza, raffinatissimo oggetto con il Crocefisso sul verso, di drammatica potenza, pur nella impresa di oreficeria, e riconosce il maestro del Maestro di San Francesco in Giunta Pisano. E forse il San Francesco tra quattro dei miracoli post mortem del Santo, rimane l’opera di maggior qualità fra quante, anche ripetitive, esposte nella ricostruzione dell’opera del suo allievo. In Giunta c’è una espressività che nell’allievo si stempera in un patetismo umano e sentimentale, pronto a mortificare la pura forza narrativa delle vividissime storie con la guarigione di Bartolomeo da Narni e con la liberazione della indemoniata. Arricchiscono, fino all’estasi visiva, miniature e opere di contigui artisti, come il Maestro del Dossale del Battista, proveniente da Siena, con una felicità cromatica e compositiva che ha la sua fonte nel primo cantiere della Basilica del Santo ad Assisi; ed è un maestro certamente umbro, cui si lega il suggestivo e severo San Francesco del Museo di Orte, riconosciuto da Federico Zeri e da Cesare Brandi. Se il raro maestro, per Pietro Toesca, ha «squisitezze di forma, di colorito e di racconto», per Roberto Longhi è «un inserto alieno e sforzato nel corpo dell’arte nostra», non comprendendo «la sua squisita cultura meticciata» (De Marchi).
Mi perdoni il lettore se, per questa notevolissima mostra specialistica di un grande maestro misconosciuto, per quanto proverbiale, mi rimmergo nel deprecabile tipo d’autore del linguaggio cifrato della critica d’arte. Ma è difficile, davanti a opere così rare e sottili, non solo resistere alla tentazione, ma sfuggire al circolo vizioso di queste interpretazioni critiche, sofisticate ma non convenzionali, rispetto al gusto corrente. Altrimenti si può soltanto dire che l’emozione, anche di fronte a difficili variazioni e sfumature, è talmente alta da essere difficile riferirla, per chi non l’abbia provata davanti a tanti e apparentemente ripetitivi capolavori. Essa si riproduce per ogni Crocefissione (tema prevalente), per ogni miniatura (penso al sublime Maestro della Bibbia di Corradino, o al Maestro dei Corali di Assisi). E penso (felice formula del Longhi) al «genio degli anonimi», che lo sono solo per il nome, ma non per la straordinaria distinzione della loro individualità risentita, come il miniatore ligure che dipinge la pergamena ad acquarello nel 1290, e pare Odilon Redon o Pierre Klossowski, o Luigi Ontani.
La mostra ti accompagna verso le vertigini della miscela di un trittico cocktail-accrocchio del museo di palazzo dei Consoli di Gubbio, dove un altro critico curioso e giudizioso, Luciano Bellosi, vide, insieme a vari e posticci miniatori, vetri dorati e graffiti, con Pietro Teutonico e il possibile (?) Maestro del polittico di Gubbio, niente di meno che l’umanissimo Cimabue, frutto maturo della implosione post-bizantina dell’imprescindibile assisiate Maestro di San Francesco, ormai anonimo solo di nome. Il suo inconfondibile e risoluto stile genera anche il protogiottesco Vigoroso da Siena, con l’effetto di luce strisciata da sinistra sugli incarnati dei volti di Vergine e Santi. E, ancora, nel poco conosciuto, e qui riabilitato, Maestro di Santa Chiara, presente con la croce smagliante di Gualdo Tadino, che accende di smalti violacei e vellutati le stoffe dipinte del Maestro di San Francesco: un effetto speciale come di vernice bagnata, o non ancora asciugata, che non si ritrova nell’altra ospite d’eccezione, mai prima uscita dall’eponima chiesa di Assisi: la grande tavola di Santa Chiara conservata nel transetto sinistro, nel contesto della prima sistemazione del santuario eretto per ospitare le spoglie della «plantula» di Francesco, morta a San Damiano l’11 agosto 1253, e mai prima uscita dalla sua sede.
Un Maestro meno sofisticato, ma irresistibilmente descrittivo, nelle storie laterali, come per un horror vacui intorno alla statuaria icona della Santa. Un piccolo maestro, rispetto allo smagliante e variopinto Maestro del Trittico Marzolini, stanziale nella Galleria nazionale dell’Umbria, e pure quasi invisibile prima d’ora, nella oscillante identificazione e cronologia. Per Carlo Volpe si tratta un artista non italiano, in relazione con Coppo di Marcovaldo, tra 1260 e 1270; non italiano, verso il 1275, in dialogo con Cimabue, è anche per Mikos Boskovits e in contatto con icone della seconda metà del XIII secolo provenienti dagli atelier crociati di San Giovanni d’Acri. Francesco Mori pensa a un artista di formazione perugino-aretina, nell’orbita del precursore Giunta Pisano, e aperto, nella fase più avanzata della sua ricerca, a Cimabue. Smagliante, luminoso, fantasioso, il trittico parla una lingua moderna, per fascinazione e consapevolezza della rivoluzione in atto, sull’incedere degli anni Ottanta; e lo si intende al confronto della risentita stilisticamente e riconoscibile, ma ancora acerba, arcaica, Madonna con il Bambino della Collezione Salini, remota nel castello di Gallico, nel Senese, parte centrale di un dossale, con i panneggi spezzati, irrigiditi dall’uso meccanico della crisografia, nell’ovale sempre bizantino, benché ricalcato, del volto.
La Madonna Salini testimonia il passato ancora arcaico del pittore che poi esploderà nel Trittico Minzolini, con l’esuberanza cromatica e l’animazione del racconto nelle storie delle ante laterali. È il compimento, nel grembo di Cimabue, della grande sensibilità vivente e linguisticamente già moderna del risorto Maestro di San Francesco. Può ben essere felice Costantino D’Orazio di aver festeggiato la sua direzione alla Galleria nazionale dell’Umbria, insieme a Davide Rondoni, con questa grande mostra del primo pittore della storia di San Francesco nell’anno delle celebrazioni per l’ottavo centenario della morte del santo, mai così vivo. Tutti, soprattutto i grandi pittori, fino a Giotto e a Pietro Lorenzetti, intorno a lui. Nessun santo ha generato tanta grande pittura.