L’Occidente per come lo conosciamo è sempre più fragile. Le troppe differenze economiche e di potere, gli errori dell’Europa, la condanna all’instabilità, il ruolo degli influencer e i rischi dell’intelligenza artificiale… Sono alcuni dei temi analizzati dal filosofo Carlo Galli, che in un recente libro – e in questa intervista – scandaglia le minacce al nostro sistema di governo.
È acclarato: la democrazia liberale è malata. Qual è la prognosi? Il referto ha provato a darlo Carlo Galli, filosofo politico, editorialista di Repubblica ed ex deputato del Pd, nel suo ultimo libro, edito da Einaudi: Democrazia, ultimo atto?
Professore, il 2024 potrebbe essere l’anno del trionfo dei candidati e dei partiti «impresentabili», da Donald Trump ai sovranisti in Europa. Così, all’improvviso, per certi giornali, le elezioni sembrano diventate un problema. «La democrazia è in pericolo», dicono…
La democrazia è in pericolo, sì, ma non perché si vota. D’altronde, se vince un candidato «sbagliato», significa che a monte c’era qualcosa di sbagliato.
E l’errore dove sta?
Nelle troppe differenze economiche e di potere. Quando vengono enfatizzate e cristallizzate – ossia, vengono definite inevitabili e non correggibili – allora la democrazia diventa postdemocrazia: la facciata delle procedure democratiche permane, ma la sostanza reale della democrazia – la consapevolezza dei cittadini di contare qualcosa, di poter cambiare la politica – evapora.
Inevitabilità: non è anche la retorica politico-economica dell’Unione europea?
È vero, ma non confondiamo l’Europa con il «rigore» dell’ordoliberalismo tedesco, adottato dall’Ue come paradigma economico-finanziario. È questo a non essere necessario, mentre l’Europa è una necessità.
In che senso?
Gli Stati nazionali furono una grandissima invenzione. A tal proposito, spendiamo una parola in favore del concetto di sovranità: sovranità significa che sono i cittadini a decidere su sé stessi. Il concetto nacque nel contesto dell’assolutismo monarchico, ma era democratizzabile e, infatti, è diventato nazionale e progressivo.
Poi cos’è successo?
Gli Stati hanno fatto il loro tempo. Non hanno più la capacità di fare grande politica, di competere sulla scena mondiale per la potenza – o meglio, per l’egemonia.
E l’Europa?
La Ue non ha un Dna politico, bensì funzionalista. L’Unione è nata mettendo insieme alcune funzioni sovrane, mentre le altre restano in capo ai singoli Stati, che le attuano come possono: debolmente ma tenacemente. Perché si arrivi a una sovranità europea, anche federale, è necessario un potere costituente: la volontà di affidare le capacità politiche fondamentali a un’istituzione sovrastatale.
È realistico?
È improbabile. Quando in ballo c’è l’interesse nazionale, ritorna la legge del più forte. Per dire: qualcuno ci dà una mano in materia di immigrazione? No. Perché? Perché non è nell’interesse nazionale di nessun altro oltre all’Italia.
La guerra in Ucraina, sostiene lei, ha riportato in auge le ragioni della geopolitica. Quando ne parlano, però, media e politici adoperano il linguaggio della morale: bene contro male. Le cancellerie europee in che termini ragionano? Negli unici termini in cui si può ragionare: quelli della politica di potenza. Che non è necessariamente militare.
No?
Può essere anche una politica di cooperazione. Germania e Russia, per esempio, cooperavano, entrambe per accrescere la loro potenza. E in fondo cos’è il Piano Mattei, se non il tentativo dell’Italia di riprendere in mano il boccino di una politica internazionale che la veda protagonista?
Nella sua analisi, scrive che nella postdemocrazia i media trattano i cittadini da soggetti «infantilizzati», «individui narcisisti, guidati dal desiderio e dalle pulsioni identitarie». Visto che s’è discusso tanto di Chiara Ferragni: in questa involuzione, gli influencer giocano un ruolo?
Sostituiscono la lettura dei giornali e in parte persino la famiglia. Si trovano certamente in una posizione di potere e si rivolgono a persone, prevalentemente molto giovani, che sono prive di punti riferimento, perché le grandi agenzie formative ed educative – Stato, partito, Chiesa, scuola – non hanno più presa su di loro.
Si moltiplicano gli allarmi sull’intelligenza artificiale. Lei sostiene che il pericolo non sia che l’I.a. possa diventare come noi, cioè autocosciente, ma che sia già come noi, cioè che riproduca le storture politiche ed economiche della nostra società.
Be’, sono gli esseri umani a decidere le finalità dell’intelligenza artificiale. Che non è un’intelligenza, ma un algoritmo che opera su base statistica, e non è artificiale, perché ha bisogno di chi la programma e di enormi infrastrutture fisiche. Non ci stiamo adeguando a delle macchine; ci stiamo adeguando a chi le ha programmate.
L’emergenza, scrive, ormai è «instabilità che si fa ripetitività». È un trucco per imporci decisioni prese da potentati opachi?
Le emergenze non sono indotte da complotti. È il paradigma del nostro sistema a fondarsi sull’instabilità e, dunque, sull’emergenza. Dopo il trionfo americano negli anni Novanta, sono ricomparse rocciose volontà di potenza non americane, che hanno rimesso in gioco la vecchia geopolitica, di per sé portatrice di instabilità, di conflitto. E poi c’è l’economia.
La crisi eterna?
Con la crisi del neoliberismo, il ciclo economico è diventato sempre più breve e sempre più violento. I tentativi di stabilizzazione funzionano a livello finanziario, ma non sociale.
Cosa intende?
Come abbiamo superato le ultime crisi? Stampando moneta negli Usa e con il Quantitative easing della Banca centrale europea, ossia comprando il debito degli Stati. Ma questo era keynesismo? No, perché non c’è stata alcuna redistribuzione né lotta alla disoccupazione. È finito tutto nelle tasche delle grandissime imprese, o in quelle delle banche. In Italia, il fenomeno è aggravato da condizioni come il blocco trentennale dei salari, il sistema pensionistico, l’erosione delle istituzioni pubbliche, manomesse prima dal grillismo e adesso da un governo che punta a una discutibilissima riforma del premierato. Governo che, alla faccia del sovranismo, ha accettato modifiche al Patto di stabilità che ci obbligheranno fra tre anni a manovre lacrime e sangue.
E la sinistra? Non ha nulla da dire?
La sinistra è corresponsabile. Le responsabilità della crisi italiana ce le hanno tutti: la destra berlusconiana, che ha governato a lungo; i Cinque stelle, che hanno messo in piedi due fonti mostruose di sperpero, come il reddito di cittadinanza e il Superbonus; la destra di Giorgia Meloni, che sia pure obtorto collo ha accettato una revisione vessatoria dei parametri di Maastricht; la sinistra, raramente ha alzato la voce contro le contraddizioni intrinseche al paradigma neoliberista e ordoliberista. Che sono il vero nemico, interno, dell’Occidente.