Tirando le somme (e non penso al tesoretto dell’Avvocato scoperto post mortem), credo che se quasi quarant’anni fa qualcuno avesse fatto prevalere gli interessi nazionali, oggi l’industria automobilistica italiana non sarebbe ridotta al lumicino.
Dopo esserci giocati l’industria dei computer (sono passati 25 anni da quando l’Olivetti, allora di proprietà di Carlo De Benedetti, abbandonò la produzione dei pc) e quella del bianco (la Candy, prima azienda a fabbricare lavatrici in Italia e ultima a passare la mano, da cinque anni è cinese), stiamo per perdere anche quella automobilistica. A pagina 24 di questo numero di Panorama, Guido Fontanelli racconta il lento declino del settore in Italia. Nel nostro Paese ormai si assemblano meno vetture di quante ne escano dalle catene di montaggio in Romania, all’incirca la metà di quelle che si producono in Slovacchia, quasi un terzo di quante se ne fabbricano nella Repubblica Ceca. Qualcuno potrebbe pensare che, per risparmiare, le case automobilistiche preferiscano dirottare la produzione là dove gli stipendi sono più bassi e le garanzie per i lavoratori meno rigide. In realtà, la Spagna continua a mettere su strada più del triplo dei veicoli usciti dalle fabbriche italiane, la Francia ne assembla il doppio delle nostre e la Germania sette volte tanto. Dunque, non sono i Paesi più industrializzati a rinunciare alla produzione di auto: sono le nostre aziende che si ritirano, al punto che con 476 mila veicoli, ormai ce la giochiamo con l’Ungheria, che di suo non ha mai avuto una tradizione nel settore e ha un sesto della nostra popolazione.
Detto in altre parole, ci apprestiamo a perdere anche l’ultimo fiore all’occhiello della grande industria italiana. Sono passati tre anni da quando fu annunciata la fusione della Fiat, già trasformata in Fca, con il gruppo francese Psa di proprietà della famiglia Peugeot. L’accordo venne strombazzato con toni trionfalistici. «John Elkann, l’erede di casa Agnelli, realizza il sogno di Sergio Marchionne». Dopo dieci anni a caccia di un partner, la Fiat ha raggiunto «una grande intesa» senza complessi d’inferiorità, scriveva l’Ansa commentando la nascita del quarto gruppo mondiale nell’automotive. In realtà, guardando i fatti con gli occhi di oggi, si capisce che la famiglia torinese ha diluito la propria partecipazione nel settore e le decisioni che riguardano ciò che resta della più grande azienda automobilistica italiana vengono prese a Parigi. Già con la fusione fra Fiat e Chrysler, il baricentro si era spostato all’estero, poi era avvenuto il trasloco della holding in Olanda, ma dopo la nascita di Stellantis, l’ex Fiat è divenuta una semplice succursale, dove gli stabilimenti contano quel che contano e infatti oggi la produzione è ai minimi storici.
Le responsabilità di un simile processo che rischia di cancellare nel prossimo futuro l’industria automobilistica italiana sono molte. Il principale imputato ovviamente resta Gianni Agnelli che, sebbene poco più di un mese fa, e cioè nel ventesimo anniversario della morte, sia stato celebrato come un re, non fu affatto un imprenditore illuminato, quanto meno se con questo termine si voglia indicare un manager lungimirante. Con lui al comando fu cacciato Vittorio Ghidella, l’unico che se ne intendesse di automobili, e l’azienda fu consegnata alla finanza, cioè a Cesare Romiti, con il risultato che alla fine degli anni Novanta la Fiat si ritrovò senza veicoli, cioè senza modelli in grado di competere sul mercato. L’agonia fu prolungata dagli incentivi del governo Prodi, ma senza i giochi di prestigio di Sergio Marchionne, che riuscì a costruire l’alleanza con la Chrysler grazie ai soldi di Barack Obama, l’azienda sarebbe finita male, anzi malissimo.
Tuttavia, non ci sono solo le responsabilità di Gianni Agnelli, ma anche quelle della politica. Nel 1986 l’Iri, a quel tempo guidato da Romano Prodi, invece di cedere l’Alfa Romeo alla Ford, che aveva avanzato una formale offerta, la girò alla Fiat, di fatto condannando a morte la casa automobilistica di Arese (nonostante le promesse, il Biscione non fu mai rilanciato), ma anche uccidendo la concorrenza che, come è noto, è indispensabile non solo a tutela del consumatore, ma anche del mercato. Il governo era guidato da Bettino Craxi, ma all’Industria c’erano Renato Altissimo, la cui famiglia aveva posseduto una fabbrica dell’indotto Fiat, e successivamente Valerio Zanone, ex sindaco di Torino, mentre le Partecipazioni statali, da cui dipendeva l’Iri e dunque anche l’Alfa, erano guidate da Clelio Darida, un vecchio democristiano della sinistra Dc. All’epoca, era ancora valido il motto di casa Agnelli, per cui ciò che andava bene alla Fiat andava bene all’Italia. Poi si è capito che non tutto quello che faceva comodo alla casa regnante di Torino era anche un bene per il Paese. Tirando le somme (e non penso al tesoretto dell’Avvocato scoperto post mortem), credo che se quasi quarant’anni fa qualcuno avesse fatto prevalere gli interessi nazionali, oggi l’industria automobilistica italiana non sarebbe ridotta al lumicino.