A un tasso di sindacalizzazione tra i più alti d’Europa fanno da contraltare gli stipendi più bassi del continente. Le tasse aumentano, ma i salari restano uguali. E a pagare sono sempre i lavoratori. Sempre più poveri.
«Perché in Italia abbiamo salari più bassi che nel resto d’Europa?» mi ha chiesto a bruciapelo Mario Giordano, nell’ultima puntata di Fuori dal coro. Già, perché, mi sono chiesto anche io, pronto a citare una serie di fattori che influiscono sulle retribuzioni, sulla crescita delle imprese, sul carico fiscale che grava sui contribuenti. Poi però mi è venuta in mente una copertina di Panorama. Non risale alla mia direzione, ma a quella di Lamberto Sechi, l’uomo che negli anni Sessanta portò al successo il nostro settimanale, imponendolo come un giornale più attento ai fenomeni politici e sociali. Beh, il titolo di quella copertina era semplice: «Chi pagherà?». Si intravedeva il volto di un operaio e il tema trattato era l’«Autunno caldo». Il Paese era attraversato da una stagione di scioperi e da un’innumerevole quantità di rivendicazioni. L’Italia del boom stava esplodendo, ma per via dei conflitti sindacali, e Panorama si chiedeva quali sarebbero state le conseguenze. «Chi pagherà?» era l’interrogativo. Beh, a distanza di cinquant’anni la risposta c’è: hanno pagato i lavoratori. Infatti, a un tasso di sindacalizzazione tra i più alti d’Europa (il numero di iscritti a Cgil, Cisl e Uil è di circa un lavoratore ogni tre, mentre nei Paesi Ue a volte nemmeno si arriva a uno ogni cinque) fanno da contraltare gli stipendi più bassi del continente.
Evidentemente, in questi cinquant’anni qualche cosa non ha funzionato. La nostra, a differenza di altre, è una Repubblica fondata sul lavoro, ma il fatto di avere avuto il più importante partito comunista d’Europa, un sindacato tra i più battaglieri e partecipati, e una conflittualità aziendale che spesso ci ha fatto guadagnare il podio nella classifica delle vertenze, non ha prodotto il risultato che sarebbe stato legittimo aspettarsi. Anzi, le retribuzioni continuano a essere basse. Questo, nonostante il mondo del lavoro sia regolato da contratti collettivi nazionali che coprono circa il 90 per cento dei dipendenti, percentuale che nessun altro Paese può vantare.
Del resto, che spesso le lotte sindacali siano inutili, anzi fini a sé stesse, dettate più da motivazioni politiche che da intenti di voler migliorare le condizioni di operai e impiegati, lo dimostra anche l’ultimo sciopero generale indetto da Cgil e Uil, a cui la Cisl non ha voluto unirsi. Lasciamo perdere le polemiche sulla precettazione firmata dal ministro dei Trasporti Matteo Salvini, se fosse necessaria o meno, se sia stata una violazione dei diritti costituzionali, come sostiene Maurizio Landini, oppure no. Trascuro anche le percentuali di partecipazione all’astensione dal lavoro, preferendo non infilarmi nelle discussioni propagandistiche di chi parla di successo e di quanti vi si oppongono definendo lo sciopero un flop. Ciò che conta dovrebbe essere il risultato. E il risultato qual è? Una protesta che è costata cara a chi ha deciso di parteciparvi, perché una giornata di lavoro in meno incide sulle già magre buste paga, a che cosa è servita? Passata una settimana, non soltanto nessuno si ricorda più di coloro che hanno deciso di incrociare le braccia e di protestare in piazza, ma neppure si ha memoria delle ragioni per cui si è scioperato.
A dire il vero, le motivazioni erano un po’ confuse anche in precedenza, cioè quando l’astensione è stata proclamata. Landini si è schierato contro la manovra del governo prima ancora che fosse varata, aggiungendo di essere contrario alla riforma costituzionale proposta dal centrodestra. Ma che cosa c’entra il premierato con il sindacato? Cgil, Cisl e Uil dovrebbero occuparsi delle condizioni dei lavoratori, non di quelle in cui versano le istituzioni italiane, anche perché a queste dovrebbe pensarci il Parlamento. Insomma, in uno straordinario scambio di ruoli, il leader della principale organizzazione confederale è riuscito persino ad annacquare la protesta di migliaia di lavoratori, i quali hanno perso una giornata di paga senza ottenere niente in cambio.
Naturalmente, lo scorso sciopero generale è un esempio, ma spiega bene perché la strategia di Cgil, Cisl e Uil non abbia prodotto in cinquant’anni risultati apprezzabili, anzi ne abbia ottenuti di negativi. Certo, l’industria avrà le sue colpe e la politica altrettante. Ma se i salari sono rimasti bassi e le tasse sono paradossalmente diventate alte, senza tuttavia consentire di raggiungere una contropartita apprezzabile in termini di servizi per il cittadino (parlo di scuola, sanità, trasporti e sicurezza, settori che sono alimentati dalle imposte dei contribuenti), il primo che dovrebbe fare mea culpa è proprio il sindacato. «Chi pagherà?» si chiedeva mezzo secolo fa Panorama. Ora lo sappiamo: hanno pagato gli italiani.