Il tramonto dell’Occidente griffato Concita De Gregorio, inviata speciale nel Kali Yuga. Quello che la prima editorialista di Repubblica ha tracciato ieri era a tutti gli effetti un ritratto dello sconforto, una intemerata contro l’inesorabile declino di una Terra desolata che ancora è convinta di essere la landa dei sogni e della libertà. Concita si è accorta, per cominciare, che stiamo scomparendo (noi italiani). «Niente che non sappiamo già», scrive. «L’inverno demografico, certo. Aumentano gli anziani diminuiscono i bambini: una società – un corpo collettivo – morente, ce lo mostrano ogni anno i numeri. Poi quei numeri astratti diventano 49 prime elementari in meno, squadre che spariscono, cori che chiudono. Fra dieci anni sarà una generazione di adolescenti che manca all’appello, fra venti un migliaio di venticinquenni in meno, in quella piccola città, all’ingresso del lavoro. Ma tanto. Meglio così. Il lavoro non c’è già oggi. I lavori che abbiamo fatto noi, quelli per cui abbiamo studiato o fatto pratica anni e decenni, sono spariti insieme alle edicole, i correttori di bozze, le agenzie di viaggi, i portieri di notte, i rappresentanti di commercio, gli impiegati di banca. Sostituiti da voci incise su nastri, app, siti internet che ti chiedono di dimostrare, prima di entrare, che non sei un robot. D’ora in avanti, da intelligenze artificiali in grado di far rivivere la voce dei morti e la prosa di Arbasino, da aquiloni killer che ti guardano negli occhi prima di sparare».
Difficile non condividere lo spaesamento e, a tratti, persino la disperazione. Persino la diagnosi, condividiamo. Perché, dice Concita, abbiamo smesso di riprodurci? Risposta: perché abbiamo paura. Perché l’angoscia, antico male che già Baudelaire aveva identificato come prima caratteristica della modernità, ci pervade fin nelle ossa. Viviamo, dice la De Gregorio osservando lo spettacolo malinconico dei social, in «un’epoca triste raccontata da immagini felici», ovvero i milioni di selfie e scatti sorridenti che affollano la Rete.
Profonda riflessione filosofica, questa, resa con una presa che ondeggia fra Spengler e Strindberg. E ovviamente non possono mancare, nella fenomenologia del tracollo occidentale, gli sfruttatori della paura. Coloro che ne suggono le acque amare, coloro che ne approfittano per mantenere il potere: le destre feroci, Salvini che fa l’amico di Elon Musk, Donald Trump che mette i dazi e insulta Zelensky, Putin che bombarda, Netanyahu che non viene nominato per pudore (sia mai che qualcuno a Repubblica si irriti) ma «bombarda le ambulanze, gli ospedali, stermina un popolo e bambini tutti i giorni, ogni giorno».
Il quadro perfetto per l’epoca, suggerisce Concita, è il «Papa che boccheggia», e anche questo potrebbe essere vero. Perché rende l’idea di una cristianità malata e sofferente, affaticata e debole. È il simbolo di una Europa in crisi e di un Occidente patologico, pachiderma claudicante e spompato. Tutto fantastico e condivisibile: con la certificazione di un filosofo alla moda come Byung-chul Han, spietato narratore della età dell’ansia.
Solo un dubbio: ma come siamo giunti fin qui? Come siamo arrivati alla perdita totale di senso, di speranza, di futuro? Come abbiamo imboccato la via dell’estinzione e soffocato la vita che un tempo brulicava? Ed è qui che forse alla raffinata penna progressista toccherebbe un supplemento di analisi. Non che sia colpa sua, figuriamoci. Tuttavia, la cultura che ella diffonde e sponsorizza ha non poche responsabilità a riguardo. Quel Papa boccheggiante che tanto la impressiona è in verità il simbolo di una maniera di affrontare il mondo che non rifiuta la sofferenza e tenta di fare i conti con la morte, sfida che il progressismo ha sempre rifiutato, preferendo la costruzione del paradiso artificiale, oppio dei popoli se ve n’è uno. È rincorrendo queste utopie, il sogno delirante di una terra levigata, senza fatiche e dolori, che ci siamo tutti quanti assuefatti alla patologia. Intontiti, siamo divenuti incapaci di affrontare la complessità del reale, di immaginare un futuro che non fosse utopico – cioè irrealizzabile – ma concreto e edificabile.
La conseguenza è il declino per cui la De Gregorio si dispera. Ma a dirla tutta viene da supporre che sia una disperazione da poco: basterebbe che i cattivoni destrorsi sparissero dalla circolazione per farle tornare gioia di vivere e contagioso entusiasmo. I conservatori, con larghissimo anticipo, avevano intuito dove sarebbe andato a parare il delirio onirico del progresso privo di argini, e tutte le anime dolci sinistrorse erano impegnati a deriderli. Oggi, perso un pizzico di potere e smarrita l’antica forza, ecco che le sinistre si rifugiano nella nostalgia dei bei tempi trionfanti della globalizzazione, in cui il pianeta sembrava terreno di conquista e la felicità pareva a portata di mano. Piangono le sorti dell’Occidente che loro stesse hanno svuotato, privato di senso e identità. Meravigliosi, i progressisti: scimmiottano Spengler per lamentarsi di aver avuto successo.