Dovevano essere la comunità globale per il confronto di idee ed esperienze. Sono scaduti in un’arena di intrattenimento e promozione commerciale. In Italia, poi, il caso Ferragni ha svalutato anche la figura degli influencer. I network digitali vivono una crisi profonda tra ansia da performance e contenuti ai limiti del basico. Le potrà salvare la nuova frontiera della realtà virtuale?
I social network sono morti e noi siamo stati i loro killer. Non perché li abbiamo trascurati, ignorati o abbandonati, ma peggio: abbiamo tradito la funzione che racchiudono nel nome, la loro missione fondativa di essere reti sociali. Li abbiamo trasformati in jukebox dell’intrattenimento, in slot machine dell’evasione attivate con rintronata passività: da attori postanti e commentanti che eravamo, ci siamo confinati al ruolo di spettatori dalla sbornia persistente, ubriacati da sorsi a raffica di video brevi, storditi da indigestioni di storie Instagram. L’interazione si sta riducendo all’essenziale: il 62 per cento degli italiani si limita a lasciare un cuoricino ai contenuti altrui, un altro 21 per cento preferisce una reazione veloce, la scorciatoia di una faccina iperemotiva che ride, piange o si stupisce. È il massimalismo dello sforzo minimo.
A confermarlo è un sondaggio realizzato in esclusiva per Panorama da Toluna, gruppo specializzato in ricerche di mercato digitali, su un campione rappresentativo della popolazione adulta tricolore. Solo un 15 per cento degli intervistati si prende ancora la briga di scrivere qualcosa sulle arene online: «E la cifra scende al 7 per cento nella fascia tra i 18 e i 34 anni» rileva Silvia D’Emanuele, direttore di ricerca e servizio clienti Enterprise di MetrixLab Italia, società del gruppo Toluna. È la premessa di una tendenza destinata ad allargarsi, a consolidarsi: il colosso della consulenza Gartner prevede che, entro la fine del prossimo anno, «il 50 per cento dei consumatori abbandonerà o limiterà significativamente le proprie interazioni con i social media». Un dato che preoccupa relativamente Mark Zuckerberg, il burattinaio che manovra Facebook e Instagram, reduce da una trimestrale da record, con ricavi per la sua Meta pari a circa 32 miliardi di dollari, in salita dell’11 per cento rispetto a un anno fa. È bastato adeguare l’offerta alla domanda di contenuti ipnotizzanti per continuare a monetizzare, anzi per incrementare i profitti: «Invece dei messaggi e le foto di amici e parenti che raccontano le loro vacanze o le loro cene eleganti» scrive il New York Times «gli utenti ora vedono spesso contenuti professionali di marchi, influencer e altri che pagano per essere inseriti».
In Italia, Facebook è ancora il social network più utilizzato, dal 75 per cento degli intervistati, seguito da Instagram che raggiunge il 64 per cento, attestandosi però all’89 per cento tra i maggiorenni fino a 35 anni. TikTok, che dei video brevi è l’emblema, che nemmeno vuole essere definito social network perché costitutivamente lontano da quella dimensione, chiude il terzetto di testa al 28 per cento, «ma conquista il 44 per cento degli utenti dai 18 ai 34 anni» sottolinea D’Emanuele. Se TikTok se la sta vedendo brutta negli Stati Uniti, dove rischia di essere messo al bando per le presunte minacce alla sicurezza nazionale legate alla sua appartenenza a una società cinese, a soffrire lungo lo Stivale è X, l’ex Twitter, l’uccellino travolto dal ciclone Elon Musk, che l’ha comprato e reso libertario fino all’anarchismo: «Il 19 per cento degli italiani lo usa meno o ha smesso di farlo negli ultimi mesi. Tra i motivi principali, l’essersi sentiti in imbarazzo o in qualche modo minacciati da altri iscritti». Nell’era dei social anestetizzati, l’aggressività non paga.
Sullo sfondo di questo nuovo corso si scorge un demiurgo, l’evoluzione operativa di un artefice instancabile: «Prima c’era bisogno della condivisione perché un contenuto diventasse virale, adesso l’algoritmo è in grado di determinare in modo silente tutto quello che ci piace. Osserva noi osservatori, monitora ciò che cattura la nostra attenzione per proporre qualcosa di analogo e altrettanto efficace» sottolinea Luca Morena, co-fondatore e Ceo di Nextatlas, piattaforma specializzata nell’intercettare le ultime tendenze. «Il risultato è un plateau di mediocrità, una scommessa al ribasso. Viviamo le conseguenze di un rimbecillimento algoritmico». Il risvolto è «farci sentire succubi, se non vittime, di dinamiche costruite per noi e allo stesso tempo senza di noi». Lo scrive Gabriella Taddeo nel libro Social. L’industria delle relazioni (Einaudi, 2024). «Li interpretiamo» aggiunge «come zone franche, in cui allentare la morsa sociale per lasciarci andare al divertimento infantile, al narcisismo, all’esaltazione tribale o alla semplice apatia».
Un altro giornale, il Financial Times, non usa mezze misure, richiamando il termine «enshittification»: la caduta verso il baratro della qualità delle piattaforme online, al punto da paragonarle ai frutti di un bisogno corporale. Traduciamo letteralmente dal più celebre quotidiano economico mondiale: «I servizi che ci interessano, su cui facciamo affidamento, si stanno trasformando in enormi mucchi di merda. È frustrante. È demoralizzante. È persino terrificante». Lo è davvero se si guarda in prospettiva, all’avvento massiccio dell’Intelligenza artificiale generativa: un’invasione di inautentico sui social network, tra foto e frasi partorite dai computer. Già scriviamo poco, presto incaricheremo un agente di bit di farlo al posto nostro: «Potremo chiedere a un programma, se siamo così pigri, di compilare un “buongiorno” diverso ogni mattina per i nostri amici o follower e di postarlo in automatico. All’orizzonte s’intravede un web sintetico» ragiona Vincenzo Cosenza, tra i principali esperti d’innovazione in Italia. Ancora Gartner rileva come l’intrusione dell’Ai in questi spazi sia considerato nocivo da oltre sette utenti su 10. «I social sono ormai luoghi di una generale messinscena» riflette Cosenza: «Hanno preso una traiettoria performativa, in cui viene meno la spontaneità perché si deve catturare l’attenzione in un tempo ridotto». E di questo atteggiamento, di questa reiterazione della falsificazione, gli influencer sono i portabandiera, sebbene la loro reputazione sia in caduta libera (vedi il riquadro a fondo pagina).
Secondo il rapporto del Censis «Comunicazione e media» presentato lo scorso dicembre, l’82,4 per cento degli italiani è sui social network (dato in crescita del 5,8 per cento rispetto a un anno prima), ma stando all’indagine realizzata per Panorama, il 71 per cento non li vorrebbe associati a un canone di abbonamento. Per nessun motivo. L’eccezione che fa gola è di nuovo legata all’ostentazione: un 12 per cento del campione verserebbe un qualche importo per l’account verificato (la spunta blu e i suoi derivati), allo scopo di distinguersi dagli altri iscritti. Il quadro complessivo è quello di un Paese conservatore, poco incline a sperimentare: il 61 per cento del campione non ha mai provato un social network fuori dal recinto dei soliti noti. Il preferito tra chi si avventura un filo oltre è Twitch (19 per cento, che diventa 32 per cento tra i 18 e i 34 anni), non a caso basato sui contenuti in streaming, dunque ancora sull’intrattenimento. Un 6 per cento ammette di aver provato OnlyFans, dove pure dominano i video e le foto, ma vietati ai minori. Se un qualche scambio avviene, non è spontaneo ma legato al profitto, alla capacità di guadagnare dai sussulti di desiderio degli utenti. Una fiammata di nuova socialità potrebbe riaccendersi se dovessero diffondersi i visori per la realtà virtuale e aumentata: Zuckerberg ha da tempo lanciato i suoi, Apple è fresca di debutto negli Stati Uniti con il Vision Pro e mira a dare un’accelerata a un settore che da troppo tempo rimane un punto interrogativo. Si attende l’annuncio dell’arrivo del prodotto sul nostro mercato.
«I social sono fermi alla prima era del web, i contenuti restano visivi e testuali. Il visore ha un microfono, porta dinamismo e tridimensionalità nello spazio dell’interazione. Ci rappresenta attraverso “avatar” o si agisce in prima persona. Tra le generazioni più giovani il passaggio è già avvenuto. I social sono “info-trattenimento”, ma la community non è più lì» riflette Lorenzo Montagna, presidente per l’Italia della Vr/Ar Association, associazione mondiale dedicata ad approfondire i temi della realtà immersiva. Gli italiani, sul punto, sono divisi in due, tra entusiasmo e scetticismo, curiosità e timori. «Un quarto esatto del campione pensa che i visori scoraggeranno ancora di più l’interazione nel quotidiano. È una preoccupazione che sale al 32 per cento tra gli ultra 55enni. Un 22 per cento li trova invece molto affascinanti e non vede l’ora di provarli per connettersi con amici e conoscenti: tra chi ha meno di 35 anni, il dato sale al 29 per cento» riassume D’Emanuele. E c’è un ambito in cui tali strumenti possono portare vera innovazione: «Nelle riunioni e negli incontri online, dove viviamo in un mondo di videosorveglianza, non di videocomunicazione. Le finestrelle con i volti dei partecipanti ricordano tanto i monitor della sicurezza» scherza ma non troppo Montagna, che è stato country manager di Yahoo! ed è fondatore della società di divulgazione Seconda-Stella. I social network, se non morti almeno tramortiti, cercano una redenzione, una via per una resurrezione che è un ritorno alle origini. Il recupero di un barlume di profondità, di autentica socialità, anche tramite una scorciatoia, attraverso l’artificio di un visore. A patto di non usarlo solo per rimbecillirsi meglio, guardando video stupidi in 3D.