Nel febbraio 1944, con un raid pesantissimo su Montecassino e la millenaria abbazia, iniziò l’offensiva degli Alleati per sfondare le linee tedesche. È stata la più sanguinosa della campagna d’Italia nel Secondo conflitto mondiale. L’attacco, però, venne provocato da un errore.
Un equivoco. Con una cattiva traduzione, giustificarono il più insensato dei bombardamenti che – 15 febbraio 1944 – precipitò 800 tonnellate di bombe sull’abbazia di Montecassino. Per 1.500 anni, le pietre del monastero erano state – ma solo debolmente – intaccate da un terremoto e dalla furia degli arabi. Per raderle a suolo, lasciando che spuntassero solo dei monconi di colonne, furono necessarie tre ondate successive di 229 aerei della «Flying Fortress». Avevano sentito la voce di un tedesco che chiedeva dov’era l’abate: «Wo ist der Abt?» per sapere se stava ancora in convento, «Ist er noch im Kloster?». Domanda banalmente logica. Da tempo, insistevano perché Gregorio Diamare (che aveva in cura la comunità dei benedettini) sfollasse in luoghi giudicati più sicuri. Con l’opposizione – ferma e garbata – di quel venerando vegliardo. L’interprete intese la parola «Abt» come la sigla di Abteiliung con il significato di «battaglione» per cui, ai comandi, mandò un resoconto sbagliato. «Ci sono reparti di soldati?». «Certo che sì: sono nell’Abbazia».
I tedeschi ovviamente c’erano ma i più vicini stavano acquartierati a 500 metri di distanza proprio per non compromettere la neutralità del monastero. Le divisioni di Hitler (al comando del Feldmaresciallo Albert Konrad Kesserling) avevano attrezzato un fronte di resistenza che, utilizzando le asperità naturali del terreno, correva sulla direttrice fra Gaeta (sul mar Tirreno) e Ortona (sull’Adriatico). Le mappe belliche la indicarono come «linea Gustav». Montecassino rappresentò il perno sul quale ruotava l’intero apparato di difesa che si stava rivelando straordinariamente efficace.
Gli alleati – una vera multinazionale di guerra con americani inglesi, indiani, neozelandesi e ferocissimi marocchini – stavano alle dipendenze del generale Bernard Freyberg. Il quale, da settimane, stava consumando energie in attacchi, sterili quanto a risultati strategici ma costosi in termini di perdite umane. I soldati, se non finivano direttamente nei cimiteri, andavano affollando gli ospedali da campo. Al punto che Winston Churchill, assecondando il nervosismo che l’affliggeva, chiese «com’era possibile che una valletta di pochi chilometri fosse diventata il fronte cui dare continuamente l’assalto senza esito».
In realtà, quella del fiume Liri non era solo un «valletta». Rappresentava il passaggio obbligato per consentire ai reparti alleati a sud di raggiungere – poche decine di chilometri più a nord – quelli che erano sbarcati ad Anzio. Dove, conquistata una testa di ponte sufficientemente ampia, non riuscivano più a muoversi. Mettere insieme i due monconi d’esercito avrebbe consentito un vantaggio per riprendere l’iniziativa. Scelsero la soluzione più ovvia: scaricare dal cielo un diluvio di tritolo che doveva scardinare le resistenze tedesche. Il generale americano Mark W. Clark eseguì l’ordine. L’eventualità di finire sotto le bombe era stata messa nel conto. I monaci si preoccuparono di proteggere le migliaia di pergamene, incunaboli, manoscritti, codici e volumi che erano stati collezionati in 15 secoli. Il generale Frido von Senger und Etterlin aveva ordinati ai soldati della divisione «Hermann Göring» di trasportare quei tesori a Spoleto (prima) e nei musei del Vaticano (poi). Furono necessarie settimane per costruire e riempire 240 cassoni. Insieme ai libri: un mappamondo del Settecento, le reliquie, una scheggia della Croce, il tesoro di San Gennaro e il medagliere siracusano.
Qualcuno temeva che i soldati, con il pretesto di aiutarli, volessero derubarli. Padre Martino Matronola, alle pagine del suo diario, confidò «Io e padre Eusebio lavorammo per scavare dei ripostigli dove nascondere le incisioni del Cinquecento, le maioliche abruzzesi, l’argenteria del monastero e gli arredi della sacrestia». Tre monaci furono informati ma – precauzione ulteriore – «uno non sapeva dell’altro e a nessuno venne detto cosa c’era sepolto». Il giorno prima del bombardamento morì padre Eusebio Rossetti, un vercellese già in là con gli anni, che fu stroncato dalla febbre. Un anticipo del peggio in arrivo con la prima esplosione, alle 9,30 del giorno successivo. Nell’abbazia erano rimasti 12 monaci e una sessantina di persone di Cassino. Si rifugiarono nelle cantine. Le volte ressero l’urto e rimasero in piedi. Dopo 30 ore di tempesta di fuoco, il capo delle pattuglie aeree, annunciando la fine della missione, comunicò con una punta di trionfalismo: «Li abbiamo pestati ben bene». I risultati pratici risultarono risibili. Il monastero venne fatto a pezzi. Finirono in frantumi gli affreschi della scuola napoletana e la volta decorata dai monaci benedettini di Beuron, in Germania. Gran parte del resto fu ricostruito come un puzzle. Gli scultori fiamminghi ripristinarono il coro in legno del Seicento. E incollando i frammenti – a volte grandi quanto un’unghia – ricostruirono l’altare maggiore opera dello scultore napoletano Cosimo Fanzago. Passa per miracolo il fatto che una bomba di due quintali si appoggiò, senza esplodere, sulla tomba di San Benedetto.
Il consultivo dell’operazione finì per danneggiare gli attaccanti che non furono in grado di conquistare terreno. In fondo, vinsero i tedeschi che non mollarono di un metro. Gli alleati arrivarono a prendere Montecassino il 18 maggio. A conquistare le rovine del monastero furono i polacchi. I vincitori si gettarono sulla popolazione con la violenza dei predatori. Lo riconobbe, con accenti autocritici lo scrittore Norman Lewis che ammise: «Tutte le donne di Patrica, Pofi, Isoletta, Supino e Morolo sono state violentate». Ancora, con citazioni persino più raccapriccianti: «Il 21 maggio, a Lenola, hanno stuprato 50 donne e, siccome non ce n’erano abbastanza per soddisfare la soldataglia, approfittarono di vecchi e bambini».
Sul banco d’accusa, i marocchini del corpo di spedizione francese. Loro non combattevano per nessuna bandiera. La divisa era un mezzo per saccheggiare e l’unico obiettivo consisteva nell’accaparrarsi il bottino di guerra. Spezzavano le mani ai cadaveri per togliere gli anelli dalle dita. Per recuperare i denti d’oro dalla bocca preferivano mozzare la teste e portarsela nell’accampamento dove erano in grado di praticare un lavoro più accurato. Li scoprirono perché i frammenti di cadavere cominciarono a puzzare. In quelle terre, chi aspettava gli eroi vide arrivare i selvaggi. Alberto Moravia raccontò la storia di una Ciociara brutalizzata dai soldati. E Vittorio De Sica, nel 1960, tradusse quelle pagine in un film dove un’impareggiabile Sophia Loren meritò il premio Oscar. E, tuttavia, l’uno e l’altro sembrarono autori di un racconto costruito sul filo della fantasia. La verità storica è rimasta come accartocciata in una nuvola di reticenza. Gli abusi sulla popolazione finirono per trovare una definizione assolutamente generica – «le marocchinate» – che, con la pretesa di riassumere il tutto, lasciò che ogni episodio si perdesse per strada, senza lasciare traccia né del contesto né del dettaglio.
Per la verità, in quel momento, il «governicchio» di Pietro Badoglio non aveva che la prospettiva di tirare a campare. Non capivano se, dagli americani, erano considerati ex nemici, cobelligeranti o alleati. E, dunque, non sapevano se i territori dove via-via si stava combattendo andavano intesi come «liberati», occupati o annessi. Alla fine della guerra, sembrava brutto tirare fuori la questione delle violenze subite dai cittadini. I «fratelli liberatori» ci avevano tolto di mezzo i fascisti e assicuravano iniezioni di dollari per la ricostruzione. E anche adesso, coloro che hanno protestato per il #MeToo» hanno trovato altre questioni – assai più contemporanee – cui dedicare attenzione. Quelli che tentano di squarciare la cappa di reticenza si contano sulle dita di una mano. Nel 2011, il presidente dell’Associazione delle vittime delle marocchinate Emiliano Ciotti denunciò: «Dalle testimonianze raccolte, si può affermare che furono almeno 20 mila i casi di violenza». Precisò che quell’«almeno» andava inteso in senso estensivo. «I referti medici» specificò «documentano di altre 30 mila donne che si presentarono agli ospedali ma che, per vergogna o per pudore, non formalizzarono la denuncia di abuso». Poi ci sono quelle che fecero a meno anche delle cure sanitarie e si tennero tutto per sé. Voce isolata che – inutilmente – chiede che almeno la storia si faccia strumento di giustizia.