Si allungano pericolosamente i tempi d’intervento di questi mezzi d’emergenza. Ed è uno dei troppi problemi dell’assistenza sanitaria…
Il Pronto soccorso si chiama così non per una questione di efficienza fine a sé stessa ma perché, in molti casi, la velocità dell’intervento decide della vita e della sopravvivenza di colui o colei che ne ha bisogno. Purtroppo i dati non vanno in questa direzione, ma in un allungamento dei tempi dell’intervento e anche in una crescente difficoltà a «collocare» i malati una volta che l’autoambulanza, il 118, arriva all’ospedale. È capitato a Roma quest’estate, lo hanno riportato le cronache, che i mezzi bloccati sotto il sole erano 60 in una sola mattinata: 60 ambulanze che non potevano ripartire per altre destinazioni, magari urgenti, semplicemente perché, per la carenza di letti in reparti dove i pazienti avrebbero dovuto essere ricoverati, si era creato quell’intasamento. Abbiamo citato la Capitale per parlare di un caso, ma il problema va oltre Roma, sia a Nord che a Sud, nonché nelle Isole. È un problema nazionale che certo al Sud è più acuto.
In Italia esistono i cosiddetti «Livelli essenziali di assistenza», i Lea, che valgono in tutte le regioni, cioè ogni regione deve attenersi a tali livelli e deve organizzare il sistema sanitario in modo che siano rispettati. Bene, tra questi livelli ce n’è uno proprio sul Pronto soccorso e stabilisce che, dal momento della chiamata, il mezzo debba essere sul posto entro e non oltre i 18 minuti. Come ci dice la scienza, un paziente in fibrillazione atriale per ogni minuto in più che passa perde il 10 per cento delle probabilità di salvarsi. Ecco perché l’ovvia motivazione della richiesta di un livello essenziale.
Sono sette le regioni in cui in media si fa peggio e non si rispettano i 18 minuti imposti, e non suggeriti, dai Lea. Si va dai 22 minuti dell’Abruzzo ai 23 del Molise, dai 26 della Calabria ai 33 di attesa media in Basilicata. Perché al Sud la situazione è peggiore? La spiegazione risale a un provvedimento del 2000 che stabiliva un mezzo di soccorso ogni 60 mila abitanti. Voi capite bene che questa è una misura astratta perché dipende da come la popolazione è distribuita sul territorio. In certe parti del nostro Paese, più al Sud ma anche al Nord, e particolarmente nelle zone di montagna, un’ambulanza ogni 60 mila abitanti può voler dire che essa debba intervenire in decine di comuni anche molto distanti uno dall’altro. Se non ci fossero le varie «Croci», di differente colore, che sostengono in modo essenziale il sistema sanitario nazionale, la situazione sarebbe a tutti gli effetti disastrosa.
Le cose naturalmente peggiorano quando si accoglie a bordo un malato di Covid (per fortuna i numeri di coloro affetti dal virus che hanno bisogno di un’ambulanza sono notevolmente diminuiti): in quel caso, ogni volta che a essere trasportato è un «positivo», occorrono poi 20 minuti per sanificare il mezzo e, come ci dicono le associazioni di categoria, possono diventare fino a due ore e mezza quando l’igienizzazione dell’autoambulanza avviene in una centrale di sanificazione distante magari 40 chilometri. Come ha ricordato Paolo Ficco, cardiologo e sindacalista, presidente del sindacato Saues, c’è una fuga dei medici convenzionati del 118 che preferiscono lavorare in servizi meno stressanti e più remunerativi, dove si guadagnano 2.200 euro al mese e si va in pensione con 1.400 euro e senza neanche il Trattamento di fine rapporto, il tanto agognato Tfr. Il sindacato presieduto dal dottor Fico ha chiesto a vari rappresentanti politici di passare al contratto di dipendenza i medici convenzionati dei servizi di emergenza territoriale per arginarne la fuga.
Tra l’altro c’è da sottolineare come circa il 50 per cento delle chiamate al Pronto soccorso sono improprie: cioè non dovrebbero essere indirizzate al centro di emergenza ospedaliero ma ad altre istituzioni tra le quali, in prima istanza, il medico di base e la rete di medicina territoriale che, in questi anni, è stata disgraziatamente smantellata a favore di un’insensata ospedalizzazione di tutto e di tutti. Nessuno si sognerebbe di chiamare il Pronto soccorso, salire su un’autoambulanza e arrivare in un ospedale (cosa che, indipendentemente dalla qualità dello stesso, non è mai piacevole) se sapesse con certezza e fiducia di potersi affidare a medici sparsi sul territorio per una prima diagnosi e cura; eppure così non è e, ovviamente, chi sta male a qualcuno dovrà pure rivolgersi – oltre all’affetto dei parenti. Se poi si tratta di una persona anziana, magari sola, è chiaro che serva un intervento il più veloce possibile. Come capite bene il problema del Pronto soccorso è molto legato a quello della medicina territoriale, e la soluzione può essere cercata in una organizzazione che preveda l’uno e l’altro.