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In viaggio con Lady Chatterley

In viaggio con Lady Chatterley

David Herbert Lawrence ha sempre venerato il sole, attorno al quale ha costruito la sua opera come la sua vita. E che è al centro di «Mare e Sardegna», resoconto appena ripubblicato sulla visita all’isola.

Chissà, forse dipendeva dal suo essere figlio di un minatore, di un uomo che per sopravvivere (non troppo facilmente) doveva infilarsi nelle profondità della terra. Ma il fatto è che David Herbert Lawrence per tutta la vita ha venerato il sole, attorno a esso ha costruito la sua opera e in larga parte la sua esistenza terrena. Questa ricerca lo ha a tratti lacerato, lo ha portato ad attraversare un conflitto costante tra le forze femminili e ctonie e quelle più aeree e maschili. Una tensione che si è riverberata nei suoi romanzi, ricchi di personaggi maschili che sfidano le donne pur ricercandole insistentemente, a tratti le odiano pur adorandole. Del resto lui stesso era potentemente avvinto alla madre, e successivamente fu legato al limite dell’imprigionamento a Frieda von Richthofen, aristocratica che per lui aveva lasciato il marito, illustre accademico.

Lawrence, la sua vita e la sua opera sono dunque un tumultuoso ondeggiare tra Apollo e Dioniso, o meglio un tentativo di avvolgere nel caldo del sole le pulsioni umide e abissali del dionisiaco. Egli cantava il corpo, ne riconosceva non solo la fondamentale importanza ma addirittura la centralità. L’amante di Lady Chatterley in questo senso è emblematico: il guardiacaccia che emerge dal bosco e scatena il desiderio della ricca moglie del possidente è l’emblema di una mascolinità selvatica, forestale, primitiva e dunque pura. La natura – femminile per definizione – è carissima a Lawrence. Anzi egli ripudia la civiltà della tecnica, disegna con la fantasia paradisi incorrotti in cui la carne nuda possa muoversi liberamente e godere dell’influsso curativo e rigenerante degli alberi, dei fiumi e dell’erba. Ma allo stesso tempo, lo scrittore britannico non vuole cedere all’istinto bruto, non idolatra come Jean-Jacques Rousseau il buon selvaggio, anzi di lui diffida, ne ha compassione. 

Tutte queste contrastanti passioni emergono con prepotente chiarezza in Mare e Sardegna, memorabile resoconto di viaggio ora ripubblicato dalle edizioni Il Maestrale. Vi si narrano le avventure di David e della amata Frieda (ribattezzata, guarda caso, l’ape regina, splendida e mortale) in Italia e nelle isole: lo Ionio meraviglioso, poi Taormina, e Cagliari e Nuoro…Per loro la Penisola è appunto luogo del sole, palpitante di vita. Ma non per questo essi rinunciano a fare gli inglesi, e a biasimare gli autoctoni che, in Sicilia, costantemente si abbracciano e stringono i propri corpi grandi e panciuti. E ancora, se la prendono con le ragazzette impudenti che li sfottono mentre camminano – zaino e cucinino da viaggio in spalla – per le vie di Palermo.

Lawrence rintraccia nelle terre italiche il respiro ancestrale del paganesimo che egli in qualche modo vorrebbe recuperare, rivitalizzare. E allo stesso tempo vi vede la mano umana, riconosce la sede dello scontro atavico fra uomo e natura.  «Uno comincia a capire come antica sia la vera Italia, come sia fermamente tenuta dall’uomo, e sfruttata. L’Inghilterra è assai piú selvaggia e barbarica, assai piú solitaria anche, nelle sue campagne», scrive. «Qui da innumerevoli secoli l’uomo ha addomesticato in terrazze i fianchi inflessibili delle montagne, ha scavato la roccia, ha pasciuto i suoi greggi tra i magri boschi, ha tagliato rami, ne ha fatto carbone, è stato in qualche modo civile anche nelle piú chiuse solitudini. E questo che costituisce, in Italia, il fascino dei luoghi remoti, degli Abruzzi, per esempio. La vita è primitiva, è pagana, è così stranamente irreligiosa e quasi selvaggia; eppure è umana. E le terre piú selvagge sono a metà umanizzate, a metà sottomesse: pervase di coscienza. Dovunque si vada in Italia, uno è sempre conscio di influenze del presente e del Medio Evo, o delle lontane, misteriose divinità del Mediterraneo aborigeno. Dovunque si vada, si trova che il luogo ha il suo genio conscio. L’uomo qui ha vissuto e qui ha allevato la propria coscienza, e in qualche modo ha reso coscienti anche i luoghi, ha dato loro un’espressione, li ha rifiniti. L’espressione può essere Proserpina, può essere Pan, o le strane divinità in sudario degli etruschi e dei siculi, ma è sempre un’espressione. La campagna è stata via via umanizzata e nella nostra intessuta coscienza noi portiamo i risultati di codesta umanizzazione. Sicché andare in Italia e penetrarne il significato è per noi un atto di affascinante auto-scoperta; a ritroso nelle antiche vie del tempo. Strane corde meravigliose si svegliano in noi, e di nuovo vibrano dopo centinaia e centinaia di anni ch’erano state dimenticate».

Lawrence è attratto e spaventato da questa forza primitiva della Penisola. In fondo, lui è sempre rimasto un puritano. Lo hanno dipinto quale pornografo e cantore del sesso, ma la carne bruta non gli interessava: tutto doveva diventare spirito. Cantava il corpo elettrico, sì, ma a differenza di Walt Whitman non idolatrava le masse e di conseguenza sprezzava la democrazia. Bertrand Russell, con cui intrattenne una corrispondenza, arrivò a ripudiarlo stizzito accusandolo di fascismo, e a chiudere i rapporti.

Ma Lawrence non era antidemocratico. Era, semmai, aristocratico. Figlio di minatore, appunto, auspicava una aristocrazia della vita e non del denaro. «In un mondo di farisei arroganti e romani egoisti, Gesù pensò che la purezza e la povertà fossero una sola cosa», leggiamo in Aristocrazia (contenuto nell’antologia L’aristocrazia della vita, edita da Oaks). «Fu un errore fatale. La povertà è troppo spesso solamente il risultato di una povertà naturale, povertà di coraggio, povertà di vitalità viva, povertà di virilità, vita povera, carattere povero. E i poveri di vita sono i più impuri, i più facilmente degeneri. Ma i pochi uomini ricchi di vita e puri di cuore nella povertà lessero la purezza, e nacque cosi la Cristianità. “La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia”. Sono parole di nobile virilità. Accadde cosi ciò che doveva accadere: gli uomini dal cuore puro lasciarono la corsa al denaro e al potere agli impuri».

Ecco, sono questi uomini dal cuore puro che Lawrence ricerca. Uomini del sole, per un rinnovamento spirituale del mondo. Egli li cerca ovunque, in Messico come in Italia. Uomini dal corpo forte, e della mente libera, modellati su un nobile ideale di forza virile. Uomini plasmati dalla lotta, fisica e spirituale. Ne La guerra come scuola (De Piante editore), egli disegnava i tratti della nuova umanità: «Avremo una nuova educazione, dove un occhio nero costituirà un segno d’onore, e dove gli uomini si spoglieranno completamente per la nobile causa della lotta», scriveva. «Che cos’è la lotta? È qualcosa di fisico e originario. Niente a che vedere con quel terribile processo ideale della nostra ultima guerra. Non è l’orrenda e blasfema traduzione delle idee nei motori e degli uomini in carne da macello per cannoni. Basta con questo tipo di guerra!». Lotta allora, non guerra. Confronto naturale e non tecnico. «Mille volte basta a queste oscenità!», continuava Lawrence. «Estirpate dall’umanità desideri di questo tipo! Ma lasciateci la guerra vera, la lotta vera. E che cos’è la lotta vera? È un puro conflitto di uomini fisici: tutto qua, non c’è niente di meglio. Cosa importa della morte, se l’uomo muore nella vampa di un appassionato conflitto? Egli andrà in cielo, come dicevano gli antichi: in qualche modo, in qualche luogo, la sua anima riposerà perché la morte per lui non è stata che un passionale compimento. Niente a che vedere con l’orribile e mostruosa perversione di una guerra in cui vi può capitare di saltare in aria maciullati mentre mangiate una sardina. Quando invece l’anima sceglie il proprio compimento gettandosi con fierezza fra le braccia della morte, nulla va perduto. Ma la nostra carne da macello per cannoni! Dobbiamo far di tutto per porvi fine». 

Pacifista, dunque, amante della natura vivificante. Non a caso Henry Miller lo dipingeva come una sorta di San Francesco mancato. Ma non poteva essere tutto lì. Come San Francesco, «D.H.» è stato anche molto frainteso. Il suo lato agonistico, combattente e ascetico è stato messo in secondo piano. Ma lì sta la sua vera grande eredità spirituale, nel suo sogno di una umanità solare, agonistica. Un sogno naufragato. Lawrence, dopo tutto, è stato uno sconfitto. E il suo immergersi nell’Italia dorata non fu altro che una stazione appena più dolce in pellegrinaggio infinito alla ricerca di una vita aristocratica che gli sfuggiva.

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