Nell’aprile del 1924 moriva l’attrice italiana più famosa, la «Divina» che reinventò il teatro e al tempo stesso lo portò nella sua quotidianità. Una personalità che segnò un’epoca, al pari della sua tormentata storia d’amore con Gabriele D’Annunzio.
Con quei lineamenti duri, accentuati dagli zigomi affilati, non si può dire che fosse bella ma, quando Eleonora Duse si presentava in pubblico, si tirava addosso gli sguardi di tutti. Non per nulla era – per prima cosa – «divina». Nello sguardo. Nell’atteggiamento. E in quell’accompagnare la discussione con il muovere delle mani come se dirigesse i suoni di un’orchestra (che era lei stessa). Sembrava destinata al palcoscenico. Del resto, la Duse nacque il 3 ottobre 1858 in teatro, per poco direttamente sulla ribalta (sua madre Angelica Cappelletto era un’attrice «clodiense» – gergo raffinato per evitare di attribuirle la qualifica di «girovaga» – che recitò, anche in gravidanza, fino a quattro ore prima del parto), e morì a Pittsburgh – Pennsylvania – cent’anni fa, il 21 aprile 1924, praticamente sulla scena del dramma della Porta Aperta di Mario Praga. Aveva i polmoni squassati dalla tbc che le tagliava il fiato, ma riuscì a dare un’anima alla vita turbolenta della donna borghese che impersonava. Sfruttò le pause per respirare. Trasformò la sua tosse in un elemento del copione. E non si preoccupò di nascondere la sua sofferenza perché il dolore faceva parte del personaggio che andava in scena. Stramazzò sul palcoscenico con il sipario che si abbassava sulle sue ultime parole.Per certo, se avesse potuto scegliere, avrebbe desiderato di farla finita proprio così, sommersa da applausi che non riusciva a sentire e coperta dal lancio di fiori dal loggione che non era in grado di vedere.
Eleonora Duse recitò sempre. Se si trovava sul palcoscenico – ovviamente – ma anche mentre camminava per strada, al momento di presentarsi a una festa, se intratteneva una relazione sentimentale con qualche collega o quando decideva che non ne voleva più sapere. Era tutta istinto, innovazione e anticonformismo. Ruppe gli schemi del teatro ottocentesco. Dicono che non arrivò mai alla fine di una rappresentazione senza «inventare» qualche passaggio che non stava nel copione. Improvvisava come si fosse trovata nel salotto di casa. «Tagliava» – camminando – la scena e gesticolava senza badare ai canoni della tradizione che pretendeva minimi movimenti del corpo. Parlava, si sedeva e ricominciava a parlare. Se doveva simboleggiare un forte dolore, si aggrappava alle tende del sipario e riusciva a piangere disperatamente. Proprio questi atteggiamenti molto espressivi le consentirono di presentarsi al pubblico di mezzo mondo esibendosi in italiano che la gente non capiva eppure comprendeva. A conferma Anton Cechov, in un messaggio diretto alla sorella, scrisse di aver visto la Duse nella Cleopatra di Shakespeare. Ammise: «Non conosco l’italiano ma lei è stata così brava che mi è sembrato di percepire ogni dettaglio di ciascuna espressione». Non per nulla, la Duse conquistò la copertina di Time.
La genialità dell’attrice andò a braccetto con i suoi capricci. Bastava una variazione di clima o la vista del cielo fuligginoso per impedirle di recitare. Gli impresari teatrali andavano in bestia ma dovevano rassegnarsi a rimborsare i biglietti e a dare appuntamento agli spettatori per l’indomani. S’immedesimava così fortemente nel suo personaggio che rifiutava di conversare con i colleghi attori che recitavano con lei ma nel ruolo di «cattivi». E, al contrario, con quelli cui erano affidate le parti del buono si comportava, in scena, come fosse stata nell’intimità di casa sua. All’Armando della Signora delle Camelie si abbandonò con un bacio così pesantemente insistito da scuotere persino il pubblico francese non troppo avvezzo, che si scandalizzò per le intemperanze degli attori. Se nuovo era il suo modo di stare in scena, nuovissimo fu il repertorio che propose alla critica. Impersonò figure sgradevoli dove denaro, sesso, famiglia, matrimonio, ruolo della donna disegnavano il ritratto di una società perbenista ma ipocrita, prigioniera di luoghi comuni che solo di nascosto venivano violati.
In questo senso, Eleonora Duse fu dannunziana ancor prima di conoscere Gabriele D’Annunzio. Che, a tutta prima (1882, a Roma) venne tenuto a distanza. Le parve «attraente, con i capelli biondi e qualcosa di ardente nella persona» ma lo congedò senza dargli confidenza. E per una decina d’anni qualche sguardo qua e là, una riga di dedica sulla copertina delle Elegie e il complimento di «amatissima» lanciato dalla poltrona di prima fila del teatro Valle. L’amore travolgente e disperato (complice Matilde Serao) sbocciò a Venezia (1894) all’Hotel Danieli per trasferirsi immediatamente in Toscana. Lui abitava sulle colline fiorentine, a Settignano, nella villa presa in affitto dai marchesi Capponi e, per questo, indicata come «la Capponcina». Lei si sistemò in una residenza a due passi che, con qualche irriverenza, battezzò «la Porziuncola», come la cappella di San Francesco d’Assisi. Formarono la coppia più chiacchierata dell’Europa della Bella Époque. Si disse che la loro ispirazione poetica fosse attinta da misteriosi filtri distillati al chiarore della luna. Inverosimile. Non perché – fra l’uno e l’altra – non ne fossero capaci ma perché – in lettere, resoconti e brani di diario – raccontarono nel dettaglio ogni loro bizzarria a cominciare dal piacere che provavano nell’immergersi nudi nell’acqua del mare in groppa a un cavallo. Non avrebbero avuto difficoltà a dichiararsi protagonisti di quella stranezza.
Si amarono e litigarono. Lui scrisse e lei recitò. Ma tanto D’Annunzio compiacque la Duse quanto la maltrattò. Le affidò il ruolo di protagonista del Sogno di un mattino di mezza estate ma la escluse dalla Città morta che assegnò all’altra diva del tempo, Sarah Bernhardt. Le due opere andarono in scena – contemporaneamente – a Parigi dove la sfida fra primedonne fece accorrere tutto lo snobismo intellettuale. La prima opera non fu un fiasco conclamato solo perché i nomi dell’autore e della Duse non lo consentirono. Ma la critica non poté fare a meno di rilevare l’artificiosità dell’intreccio, la prolissità dell’azione e, soprattutto, la verbosità dei dialoghi. Lo definirono «un esperimento italiano» per risparmiarsi parole più crudeli.
Non andò meglio alla Bernhardt che fu bersagliata anche da commenti sarcastici. «Malgrado la sua bravura» pubblicò France Soir «questa città morta è una città da morire». Non si sa quando l’insuccesso abbia influito nel provocare la fine dell’amore del secolo. Ma, quasi come atto d’addio, D’Annunzio fece della Duse l’eroina del romanzo Il fuoco che, al nocciolo, raccontava la storia del loro amore. Preannunziato con grande anticipo e strepito pubblicitario, il volume fu spasmodicamente atteso e, almeno sul piano scandalistico, non deluse le aspettative. La Duse risultò riconoscibilissima nelle vesti di una dama veneziana al tramonto – tramonto descritto nei dettagli fisici – perdutamente innamorata di un uomo di vent’anni più giovane. Si disse che la Duse, per prevenirne la pubblicazione, avesse «comprato» il manoscritto col ricavato della vendita di tutti i suoi gioielli ma che D’Annunzio, dopo aver intascato una somma davvero importante, lo diede ugualmente alle stampe. Anche questo pettegolezzo non è vero. Certo, i personaggi avrebbero potuto comportarsi proprio così ma non avvenne. Ne diedero conto, indipendentemente uno dall’altro, con versioni assai simili.
Lei chiese soltanto di stare vicino a D’Annunzio mentre lo scriveva. E dopo averlo letto, altro che indignata per come era stata trattata, si dichiarò orgogliosa per avergliene fornito l’ispirazione. L’ultimo atto di una rottura già al limite della resistenza avvenne quando la Duse, nella camera di D’Annunzio, trovò due forcine d’oro che non le appartenevano. Diede in escandescenza perché «il tempio era stato profanato»: solo «le fiamme potevano purificarlo». Faticarono per impedire il falò. Quelle due forcine erano cadute dai capelli della principessa Alessandra di Rudinì che stava entrando nella vita di D’Annunzio con la violenza di un uragano con cinque cavalli, 20 servitori, 30 cani e 200 piccioni. Lui, per nulla smontato dai fischi teatrali, seguitò a sfornare drammi andando a cercare ispirazione in quelle epoche di transizione quando le civiltà si decompongono. Cercò situazioni al limite del probabile e tentò di sfruttare effetti improbabili di scena. Alla «prima» della Francesca da Rimini, a Roma, volle rappresentare la scena di un bombardamento con una catapulta che mal manovrata demolì una parete sprigionando un gas inventato da un suo amico chimico che, quasi, soffocò gli spettatori. Lei continuò a recitare, soprattutto all’estero, spesso finanziando i suoi stessi spettacoli e a chi le chiese di D’Annunzio rispose una sola volta: «Gli perdono di avermi rovinata, sfruttata e umiliata perché l’ho amato». Pretese di essere sepolta ad Asolo, dove la provincia di Treviso già si allunga verso Belluno. E dispose che la tomba fosse rivolta verso il Monte Grappa in onore dei soldati che lì avevano combattuto.