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5 Stelle: il caos regna sovrano

5 Stelle: il caos regna sovrano

Le ambizioni di Dibba e i problemi di Casaleggio. Grillo che deve arginare l’ostilità di Di Maio contro Conte. E poi, il sogno della Taverna e la strategia felpata di Fico. Così il Movimento si divide, nonostante l’attaccamento alla poltrona.


«Che fai, mi cacci?». Era il 22 aprile 2010, in diretta tv si consumò la rottura definitiva tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi. Gianfranco sbottò così contro Silvio, poi otto mesi dopo tentò di farlo sloggiare da Palazzo Chigi votando insieme alle opposizioni, con il suo neonato partitino, Futuro e Libertà per l’Italia, la sfiducia all’allora premier. Per Fini il destino fu segnato, come per tutti quelli che hanno tentato di fare la guerra al padre, padrone e fondatore di Forza Italia.

«Ieri ho parlato di congresso e delle mie idee e Beppe mi ha mandato a quel paese. Io ho delle idee e, se non siamo d’accordo, francamente, amen». La storia si ripete esattamente 10 anni dopo, il 14 giugno 2020, quando Alessandro Di Battista in diretta tv manda a quel paese Beppe Grillo, padre, padrone e fondatore del Movimento Cinque stelle. È la prima volta che un big grillino si permette una tale sfrontatezza nei confronti di Beppe. Il motivo? Di Battista, 24 ore prima, ha chiesto un congresso o un’assemblea costituente del M5s, e il fondatore lo ha affondato via Twitter: «Dopo i terrapiattisti e i gilet arancioni di Pappalardo», ha scritto Grillo, «pensavo di aver visto tutto, ma ecco l’assemblea costituente delle anime del M5s. Ci sono persone che hanno il senso del tempo come nel film Il giorno della marmotta».

La durezza del post di Grillo, per chi conosce i meccanismi interni al M5s, è il segnale che la tensione dentro a quello che fu il movimento dell’uno vale uno è arrivata al livello di massima allerta: una scissione è altamente improbabile, ma l’implosione è già avvenuta. Le tre correnti principali del Movimento, quelle che facevano capo rispettivamente a Di Battista (destra) a Luigi Di Maio (grillodemocristiani) e a Roberto Fico (sinistra), si sono a loro volta polverizzate, dissolte in una miriade di ambizioni personali, sepolte da invidie, gelosie, risentimenti, trappole, agguati, veleni e maldicenze.

L’ambizione di Di Battista, per fare l’esempio più eclatante, stando a fonti qualificate dei Cinque stelle che parlano con Panorama, è quella di fare il sindaco di Roma. Il mandato di Virginia Raggi scade il prossimo anno, e sarà il secondo, in quanto prima di indossare la fascia tricolore l’attuale primo cittadino della capitale è stata consigliere di opposizione. Il M5s, però, non esclude di dare il via libera al terzo mandato, almeno per i sindaci: lo dice il reggente Vito Crimi. Di Battista va in tilt e dichiara guerra, chiede il congresso, fa fuoco e fiamme: del resto, non essendosi candidato alle politiche del 2018, è tecnicamente a spasso e il suo sogno, il Campidoglio, può sfumare nel caso di una ricandidatura della Raggi.

Ma chi c’è dietro la legnata assestata da Grillo a «Dibba»? Paola Taverna, vicepresidente del Senato, fino a poche settimane fa considerata vicina a Di Battista, ma in questo M5s ormai ridotto allo stato gassoso le alleanze durano lo spazio di un post su Facebook. Taverna, infatti, ha in testa un’idea meravigliosa: diventare capo politico del M5s. Si è convinta di essere la persona giusta per tenere insieme la galassia pentastellata, magari qualcuno glielo ha fatto pure credere, fatto sta che vede in quella richiesta di congresso da parte di Di Battista una minaccia alla sua sfrenata ambizione: Alessandro il ribelle conta su un seguito sui social da record, e nessuno può escludere che in caso di votazione sulla piattaforma Rousseau per scegliere il nuovo capo politico non riesca a scalare la vetta del Movimento.

Secondo ricostruzioni che arrivano dal profondo del M5s, la Taverna, vicinissima a Grillo, chiama il fondatore e gli suggerisce di intervenire con durezza: detto fatto, Di Battista diventa il Fini del M5s, con tutte le conseguenze che questa frattura così traumatica potrà comportare. Di Battista può contare sul sostegno di Davide Casaleggio, figlio di Gianroberto, cofondatore dei Cinque stelle. Casaleggio junior non vede di buon occhio l’alleanza col Pd, ma la sua influenza politica sui parlamentari, anche per questioni di puro carisma, non può essere paragonata a quella del papà.

Il rampollo di Gianroberto ha anche da affrontare una grana non trascurabile: deve infatti rintuzzare le conseguenze dello scoop, vero o presunto che sia, del quotidiano spagnolo Abc, che ha pubblicato un’informativa nella quale i servizi segreti del Venezuela rivelano che il regime di Hugo Chavez, attraverso l’allora ministro degli Esteri Nicolás Maduro, avrebbe fatto arrivare a Casaleggio senior, scomparso nell’aprile 2016, una valigetta con dentro 3,5 milioni di euro. La consegna sarebbe avvenuta al consolato venezuelano a Milano, l’intermediario sarebbe stato il console Giancarlo Di Martino. Casaleggio junior smentisce, minaccia querele, ma intanto la Procura di Milano apre un fascicolo conoscitivo, senza ipotesi di reato né indagati. Il documento potrebbe anche essere falso, ma la vicenda è spinosa.

Intanto, dalle finestre della Farnesina qualcuno si gode lo spettacolo: da quando Luigi Di Maio non è più leader del M5s anche i suoi più acerrimi avversari interni iniziano a rimpiangerlo. Il suo successore, Vito Crimi, non ha polso sufficiente per tenere a bada l’esercito di parlamentari, 298 in totale, ed è accusato in particolare di privilegiare i colleghi senatori (96) rispetto ai più numerosi deputati (202). Di Maio, da ministro degli Esteri, lancia segnali di unità, ma in cuor suo gongola per questa inaspettata nostalgia nei suoi confronti: quando ha lasciato la guida del Movimento in tantissimi hanno stappato champagne; molti, adesso, si lasciano andare in privato, a espressioni come «si stava meglio quando si stava peggio».

Luigi legge, ascolta, e si dedica alla sua occupazione preferita: disseminare mine sul cammino del premier Giuseppe Conte. I due, è noto, non si sopportano: Di Maio vede in Conte il muro contro cui è destinata a infrangersi sempre e comunque la sua principale ambizione, quella di diventare presidente del Consiglio. Un sogno che potrebbe trasformarsi in realtà, nei ragionamenti di Di Maio, se elezioni politiche anticipate producessero ancora una volta un Parlamento senza maggioranza. In quel caso, destra o sinistra dovrebbero rivolgersi al M5s per formare un governo, e lui ne sarebbe il capo «naturale».

Conte e Grillo, però, la pensano diversamente, e puntano a rendere strutturale l’alleanza con il Pd. Giuseppi, spesso e volentieri, agita anche l’ipotesi di fondare un suo partito: si chiamerebbe «Con-te», nomignolo coniato dalla fervida fantasia del guru della comunicazione di Palazzo Chigi, Rocco Casalino. Di Maio, dunque, predica unità e, per il momento, si accontenta di svolazzare in giro per il mondo nella sua qualità di ministro degli Esteri.

Finché regge il governo e finché resta salda l’alleanza con il Pd, non aspettatevi sortite da parte di Roberto Fico. Il presidente della Camera è il vero punto di riferimento della corrente di sinistra del M5s: la sua carica istituzionale lo aiuta a mantenere, almeno pubblicamente, il nobile distacco dalle beghe interne al partito. Forte anche di un solidissimo rapporto con Grillo, Fico si tiene pronto alla discesa in campo, e dall’alto della terza carica dello Stato non fa mancare suggerimenti e indicazioni alle truppe, attraverso colonnelli di provata fedeltà.

Fico puntella ogni volta che può il governo giallorosso, che considera il migliore dei mondi possibili, ma quegli scalmanati dei parlamentari qualche volta gli fanno perdere la pazienza. Succede, per esempio, quando la pattuglia degli scontenti rilascia interviste anti-governo: a guidare il manipolo dei delusi ci sono due ex ministre, Giulia Grillo e Barbara Lezzi, che hanno perso la poltrona nel passaggio dall’era gialloverde a quella giallorossa «senza neanche una telefonata da parte di Luigi», come ripetono a chi chiede loro cosa sia accaduto in quei giorni torridi dell’agosto 2019.

Tutti contro tutti, dunque, ma solo fino a un certo punto: ogni fronda, ogni dissenso, ogni tentativo di mettere in discussione il governo, si infrangono puntualmente quando arriva il momento della verità, ovvero quello in cui bisogna essere disposti, per far prevalere le proprie idee, a rinunciare alla poltrona. È quello l’attimo eterno nel quale ogni velleità di far cadere Giuseppe Conte lascia il posto alla «responsabilità», ovvero al sacro terrore di non essere mai più rieletti, considerato il crollo dei consensi rispetto alle elezioni del marzo 2018.

Senatori contro deputati, destra contro sinistra, sì Mes contro no Mes, sì Tav contro no Tav, europeisti contro euroscettici: ogni scontro su strategie, programmi, progetti e (soprattutto) organigrammi si trasforma in una tregua armata quando lo spettro di doversi trovare un lavoro diventa una prospettiva concreta. È questa la polizza assicurativa sulla vita del governo giallorosso, ed è su questo che Conte conta per poter restare ancora a lungo a Palazzo Chigi. A meno che, qualcuno non trovi il modo di sfrattare il premier senza tornare alle elezioni. È questo, con ogni probabilità, il film che vedremo nelle sale italiane il prossimo autunno.

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